Pil e conti resistono ai dazi, ma il Fondo avverte: “Riforme subito”. Il rischio è una stagnazione decennale. In bilico anche la traiettoria del debito. Investimenti Pnrr decisivi, ma la produttività non riparte. A Roma servono coraggio politico e visione strategica, non solo prudenza.
(Fmi, il capo economista Pierre Olivier Gourinchas).
Pil in ripresa, ma con il fiato corto
Il giudizio del Fondo monetario internazionale sull’Italia è, nella forma, positivo. Ma nella sostanza? Cauto. Con l’Article IV pubblicato il 22 luglio 2025, il Fmi fotografa un Paese che ha sorpreso in meglio sul piano dei conti pubblici e ha tenuto botta alla tempesta dei dazi scatenata da Donald Trump, ma che resta fragile nella sua struttura economica di fondo.
La crescita del Pil nel 2024 è stata dello 0,7%, superiore alle stime precedenti, mentre per il 2025 si prevede un modesto +0,5%, con una lieve accelerazione allo 0,8% nel 2026 prima di una nuova frenata allo 0,6% nel 2027. Un percorso a singhiozzo, che già sconta la progressiva riduzione dell’effetto trainante del Pnrr.
Come ha spiegato Riccardo Ercoli, direttore del Fmi per l’Italia, nella conferenza stampa online del 22 luglio: “L’economia italiana ha dimostrato una resilienza significativa, ma i rischi restano orientati al ribasso: senza una forte spinta riformatrice, la crescita potenziale rischia di restare vicina allo zero”.
Il debito cala nei numeri, ma non nella sostanza
Il 2024 si è chiuso con un ritorno all’avanzo primario, un risultato che ha permesso di dimezzare il rapporto deficit/Pil e migliorare il saldo delle partite correnti, tornato positivo nonostante lo shock energetico. Il debito, però, continua a salire: nel 2027, secondo il Fmi, arriverà al 138,5% del Pil, in contrasto con le previsioni del governo italiano che punta a un’inversione di tendenza.
“È fondamentale mettere il debito su una traiettoria chiaramente discendente: occorre un surplus primario del 3% entro il 2027”. Un obiettivo ambizioso, visto che l’attuale livello italiano è ancora ben al di sotto di quella soglia.
La valutazione degli esperti del Fondo è netta: i rischi legati al debito pubblico sono “alti nel medio-lungo termine”, anche se attenuati dalla lunga durata media dei Btp, dal paracadute della Bce e dall’elevata domanda interna per i titoli di Stato. Ma tutto questo potrebbe non bastare, avverte il Fondo, in caso di nuova crisi o shock esterno.
Pnrr, ultima chiamata
La resilienza del 2024 è stata possibile anche grazie all’accelerazione tardiva, ma finalmente visibile, della messa a terra del Pnrr. Tuttavia, il Fondo nota che una parte rilevante della spesa resta ancora da realizzare. E non basta spendere: occorre che gli investimenti siano produttivi e accompagnati da riforme credibili.
Il messaggio è chiaro: senza completare il Piano, e senza proseguire lungo il solco tracciato dal governo Draghi, l’Italia rischia di sprecare l’ultima occasione per riattivare un motore di crescita fermo da vent’anni.
Lo dice esplicitamente un passaggio del documento tecnico allegato all’Article IV: “Il contributo debole della produttività totale dei fattori e del capitale resta il principale freno alla crescita italiana”. La tesi secondo cui il problema sarebbe solo nel lavoro viene smentita: il nodo sta nel sistema produttivo, nella burocrazia, nell’innovazione.
Trump e i dazi: la mina sotto il motore dell’export
Non meno preoccupante il capitolo sulla congiuntura internazionale, dove il Fondo individua un rischio ormai concreto: un nuovo round di dazi Usa-Ue potrebbe colpire duramente l’export italiano, frenare la domanda esterna e ridurre gli investimenti privati.
Il riferimento è all’escalation protezionista innescata dal secondo mandato di Donald Trump, con la nuova ondata di dazi su auto, vino, moda e altri settori chiave del Made in Italy. Secondo stime aggiornate al 18 luglio 2025, le imprese italiane più esposte al mercato statunitense rischiano perdite tra il 6% e il 9% dei ricavi annuali, qualora venissero confermati gli aumenti tariffari.
Il Fmi lo scrive senza giri di parole: “Un inasprimento dei dazi potrebbe compromettere la ripresa, in particolare in un Paese a forte vocazione manifatturiera ed esportatrice come l’Italia”.
Innovazione e demografia: la sfida strutturale
Dietro la tenuta dell’economia, insomma, si nasconde una struttura vulnerabile. L’Italia continua a crescere meno della media dell’Eurozona. La produttività è ferma. La demografia è in caduta libera. E le prospettive, senza interventi forti, non sono rosee: secondo i modelli previsionali del Fmi, “la crescita potenziale dell’Italia potrebbe oscillare tra lo 0% e lo 0,4% entro 15 anni”.
È qui che si gioca la partita decisiva. Le sole riforme del governo Draghi, se implementate fino in fondo, potrebbero alzare la crescita potenziale di 0,2 punti percentuali l’anno, ma servono continuità, leadership e visione. L’Italia, scrive il Fondo, ha le risorse per farcela, ma deve uscire dalla logica dell’emergenza per entrare in quella della trasformazione.
Un Paese davanti a un bivio
Il quadro tracciato dal Fondo è, nel complesso, più stimolante che allarmante. L’Italia non è sull’orlo del precipizio, ma deve decidere se restare su un sentiero di crescita modesta e fragile o imboccare una strada più ambiziosa, fatta di riforme strutturali, investimenti selettivi, revisione della spesa improduttiva e valorizzazione del capitale umano.
Come ha dichiarato Annalisa Korinthios, senior economist del Fmi per l’Italia, in un’intervista il 22 luglio: “Il margine per politiche espansive è molto limitato. Ma l’Italia ha già mostrato che, quando decide, sa sorprendere in meglio”.
La palla ora è tutta nel campo del governo: la prudenza non basta più. Serve un progetto di lungo periodo, all’altezza della sfida storica che l’Italia ha davanti.
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