così le aziende fossili si rifanno l’immagine


Mentre l’urgenza climatica richiede azioni rapide e concrete per ridurre le emissioni, le aziende fossili investono milioni per garantirsi visibilità positiva attraverso sponsorizzazioni nel mondo della cultura. Una strategia sottile ma efficace, che permette di distogliere l’attenzione dai danni ambientali causati dalle loro attività. E di consolidare il proprio potere economico e politico. Lo rivela un’approfondita inchiesta di DeSmog, che analizza le modalità con cui colossi come Shell, Chevron, Api e BP influenzano il dibattito pubblico e aggirano le crescenti pressioni normative e legali.

Greenwashing e lobbying: come le aziende fossili aggirano le regole climatiche

I documenti esaminati da DeSmog rivelano come tra il 2015 e il 2021 le compagnie petrolifere abbiano investito in programmi di sponsorizzazione nel campo dell’arte, della cultura e dell’educazione. E lo abbiano fatto con un duplice obiettivo. Da una parte quello di afforzare la propria immagine di imprese socialmente responsabili. E dall’altra ostacolare l’adozione di normative climatiche che potrebbero compromettere i profitti legati a petrolio e gas.

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Nell’ultimo decennio, la posta in gioco per le aziende fossili non è mai stata così alta. Le proteste degli attivisti per il clima sono sempre più incisive. Le azioni legali per greenwashing avanzano. E la transizione energetica, sebbene lenta, minaccia il core business fossile. In risposta, le compagnie hanno intensificato la loro presenza in musei, festival, teatri e persino podcast e newsletter. Non si tratta solo di pubblicità. È una forma sofisticata di legittimazione sociale, che offre loro uno scudo reputazionale e accesso privilegiato a decisori politici e stakeholder.

BP e Chevron nei musei e nei teatri: la cultura come strumento d’immagine

Uno degli esempi più emblematici è il caso della BP, sponsor storico del British Museum (sponsorizzazione recisa nel 2023, dopo 27 anni), della Royal Opera House e del Festival of Ideas. Nonostante le proteste pubbliche e le critiche da parte di artisti e accademici, l’azienda ha continuato per anni a occupare una posizione centrale nel panorama culturale britannico. Ma è negli Stati Uniti che la missione redentrice di BP si fa più forte. I documenti interni analizzati da DeSmog rivelano come il team di comunicazione sia stato incaricato di «sfruttare le sponsorizzazioni» per «sviluppare supporto per gli obiettivi aziendali di BP e stimolare la difesa dei diritti dell’azienda».

Questi obiettivi aziendali includono l’espansione di attività legate al Gnl in Alaska. O lo sviluppo del gigantesco giacimento petrolifero “Mad Dog 2”, situato non distante dal sito dove è avvenuto il disastro della Deepwater Horizon, nel Golfo del Messico. Nel 2016, le sponsorizzazioni di BP America (e della BP Foundation) includevano la National Gallery of Art di Washington, la corsa ciclistica “BP MS 150” da Houston ad Austin, l’organizzazione per diritti civili National Urban League. Oltre a diversi programmi Stem nelle scuole di tutto il Paese.

La stessa strategia è stata adottata da Chevron negli Stati Uniti, dove la compagnia ha investito in iniziative educative, progetti comunitari e produzioni giornalistiche. Con l’obiettivo di consolidare la propria immagine di “buon cittadino d’impresa”. Ad esempio, già nel 2017 Chevron finanziava organizzazioni come la Society of Women Engineers e il National Action Council for Minorities in Engineering. Attraverso l’Appalachia Partnership Initiative, inoltre, l’azienda ha destinato fondi a progetti nelle comunità prossime ai suoi siti di fracking nel scisto di Marcellus. Sostenendo le borse di studio ShaleNet per la formazione della forza lavoro locale e il programma di biblioteche rurali Inquire Within.

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Api e Shell investono in comunità e festival jazz per rafforzare la propria immagine

Sempre negli Stati Uniti ha operato – e opera tuttora – anche l’Api (American Petroleum Institute). Una delle lobby petrolifere più potenti d’America. Nel 2017, Api ha sponsorizzato un workshop per le Girl Scout della Pennsylvania, con «attività che imitavano il lavoro nel settore energetico». Come rivela l’inchiesta di DeSmog, Api ha ospitato il seminario come parte della sua missione volta a coltivare «alleati locali non tradizionali».

Inoltre Api ha finanziato istituzioni e manifestazioni di rilievo come il Ford’s Theatre, il Comitato olimpico degli Stati Uniti, la Biennale di architettura di Chicago e l’Houston Livestock Show and Rodeo. Le sue campagne hanno rincorso l’obiettivo di opporsi a un’ampia gamma di provvedimenti: dalle restrizioni all’export di gas naturale liquefatto (Gnl) alle imposte statali sulle emissioni di CO2, dalle moratorie sul fracking alle politiche a sostegno dei veicoli elettrici. Fino alle regolamentazioni mirate alla riduzione delle emissioni di metano, uno dei gas serra più potenti.

In questo quadro compare anche Shell, che nel 2019 ha sponsorizzato lo Houston Open (un grande evento dedicato al golf), il Houston Mayor’s Back 2 School Festival (un programma educativo di sostegno alle comunità più svantaggiate), la Shell Eco-Marathon Americas in California e la rete 100 Resilient Cities Network. Oltre al New Orleans Jazz & Heritage Festival, che l’azienda ha iniziato a sponsorizzare nel 2006 dopo l’uragano Katrina, un evento climatico estremo accentuato dalla crisi climatica.

Soft power fossile: come le aziende usano la cultura per legittimarsi

Come dimostrato da DeSmog, questa serie di sponsorizzazioni non è mai stata neutra. I finanziamenti hanno permesso alle compagnie fossili di accedere a reti d’influenza, evitare critiche e orientare il dibattito pubblico. Attraverso queste alleanze, le aziende sono riuscite a posizionarsi come attori della transizione ecologica. Anche quando i loro investimenti continuano ancora oggi a privilegiare lo sfruttamento di giacimenti e infrastrutture inquinanti.

Un meccanismo semplice quanto efficace. Legando il proprio nome a istituzioni rispettate, le aziende fossili sono riuscite a ottenere una sorta di “licenza sociale a operare”. E i benefici sono stati molteplici. Da un lato, hanno migliorato la percezione pubblica di Big Oil, soprattutto tra le fasce più istruite e sensibili al tema ambientale. Dall’altro, hanno permesso alle società inquinanti di costruire relazioni con enti pubblici, fondazioni e decisori, spesso coinvolti nella definizione delle politiche climatiche. Insomma, un investimento strategico che ha rafforzato la loro resilienza di fronte alle critiche e ai tentativi di regolamentazione.

C’è chi ha definito questa strategia soft power fossile. A differenza della pubblicità commerciale, il soft power fossile costruisce consenso sociale e culturale. Spesso attraverso il finanziamento di iniziative apparentemente distanti dalle attività industriali fossili. Una forma di lobbying implicito che rende più difficile identificare i conflitti di interesse e smascherare le contraddizioni.

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A peggiorare il quadro, spesso le stesse istituzioni culturali non pongono limiti chiari alla provenienza dei finanziamenti. In alcuni casi, come rivelato da DeSmog, i contratti di sponsorizzazione prevedono clausole che permettono alle compagnie di influenzare i contenuti o di evitare rappresentazioni critiche delle loro attività. Si crea così un circuito vizioso in cui l’industria fossile finanzia la cultura per proteggersi dalla cultura stessa.

Le istituzioni culturali rispondono alle pressioni contro il greenwashing

Tuttavia, qualcosa sta cambiando. La pressione dell’opinione pubblica e le azioni di gruppi come Culture Unstained o Fossil Free Culture stanno spingendo molte istituzioni a riconsiderare i propri rapporti con le compagnie inquinanti. Alcuni musei hanno già interrotto le sponsorizzazioni, altri hanno adottato policy più stringenti in materia di trasparenza. BP, Chevron, Shell e API sono tra le aziende e i gruppi citati in giudizio da diversi Stati e Comuni degli Stati Uniti per aver frodato – questa è l’accusa in corso – i consumatori con campagne di disinformazione e negazionismo sul clima

Ma la strada è ancora lunga. E le strategie dell’industria petrolifera si fanno sempre più raffinate. In un’epoca in cui la crisi climatica impone scelte nette, accettare finanziamenti da chi continua a investire nei combustibili fossili significa legittimare un modello insostenibile. È tempo che il mondo della cultura e dei media riconosca il rischio di farsi strumentalizzare. E scelga finalmente da che parte stare.



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