Produttività, riforme e responsabilità — Il Globo


La visione della crescita economica del Paese sembra essere il vero banco di prova del secondo mandato del governo Albanese.

Nel lessico dell’economia politica australiana, la parola “produttività” è stata a lungo evocata con rispetto, talvolta con timore, ma anche con ambiguità. Adesso, in avvio del secondo mandato del governo Albanese, la produttività si ripresenta come priorità strategica. A ricordarcelo è stato il tesoriere Jim Chalmers, che nel suo intervento al National Press Club ha ribadito come migliorare la produttività non sia un’ossessione ideologica o un vezzo da economisti, ma una necessità da mettere in campo nell’interesse nazionale. 

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In un mondo attraversato da instabilità geopolitica con le ultimissime notizie dal Medio Oriente e dall’Iran e una crescente sfiducia nelle istituzioni democratiche, rendere l’economia australiana più efficiente, più dinamica e più giusta è una condizione essenziale per garantire un futuro sostenibile al Paese.

Negli ultimi dieci anni, la crescita della produttività in Australia si è mantenuta ben al di sotto della media storica. Dal 2015, l’incremento annuo è rimasto un dato modesto, che preoccupa economisti e osservatori perché implica un rallentamento strutturale delle possibilità di migliorare i salari reali, ridurre l’inflazione in modo duraturo e aumentare il tenore di vita.

La pandemia ha introdotto un’anomalia statistica, con un aumento artificiale della produttività dovuto alla chiusura dei settori meno efficienti, come l’ospitalità e il turismo. Ma quella fase si è chiusa, e ora resta un sistema produttivo che fatica a generare valore aggiunto anche nei comparti più avanzati.

L’iniziativa del governo di convocare, dal 19 al 21 agosto, una tavola rotonda ristretta per discutere le priorità della riforma economica è un segnale importante. Non si tratta di un summit simbolico, ma nelle intenzioni del Tesoriere dovrà essere un momento operativo, con un numero limitato di partecipanti selezionati tra istituzioni, imprese, sindacati, mondo accademico e società civile.

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L’obiettivo è chiaro: individuare, tra le molte idee disponibili, quelle che possono generare risultati concreti, sostenibili e politicamente attuabili. Chalmers ha messo in chiaro che si cercheranno soluzioni che non aggravino il bilancio federale e che siano orientate all’interesse generale, evitando logiche settoriali o difese corporative.

L’atteggiamento assunto dal Tesoriere sembra essere pragmatico, quasi metodico. Non è il momento di proclami ideologici, e non si sottrae alla responsabilità di promuovere un’agenda riformista, fondata su analisi solide e una visione almeno di medio periodo. Non promette miracoli, ma pretende coerenza e partecipazione. In un passaggio del suo discorso, ha ricordato che “se esistesse un interruttore per aumentare la produttività, qualcuno lo avrebbe già premuto”.

Ma l’interruttore non c’è. E quindi bisogna agire su più leve contemporaneamente: investimenti, tecnologia, capitale umano, semplificazione normativa, politiche fiscali intelligenti, dinamismo imprenditoriale. Nessuna di queste da sola è risolutiva, ma tutte insieme possono fare la differenza.

In effetti, la questione della produttività non è mai semplice, soprattutto quando si passa dalla teoria alla pratica. Sono tanti gli esempi dove attivare dinamiche che possano aumentare la produttività andrebbe a discapito della qualità dei servizi forniti, come nel settore della sanità o della pubblica amministrazione. È per questo che si sta cercando di affiancare agli indicatori tradizionali nuove metriche, più aderenti alla realtà e capaci di cogliere anche le dimensioni qualitative del risultato prodotto.

Il governo ha già messo in campo riforme che, nel loro complesso, rappresentano una risposta a circa due terzi delle raccomandazioni contenute nel rapporto quinquennale della Productivity Commission pubblicato nel 2023. Si va dalla digitalizzazione delle imprese alla riforma del sistema di pagamento, dalla semplificazione dei regimi doganali all’ammodernamento della rete elettrica, fino agli investimenti nella formazione professionale e nella sanità. Tra i provvedimenti più recenti, spiccano l’introduzione di un regime nazionale per le licenze professionali – che dovrebbe aumentare la mobilità dei lavoratori e ridurre le barriere burocratiche – e l’abolizione delle clausole di non concorrenza, che ostacolavano il dinamismo del mercato del lavoro.

La consapevolezza di non poter fare tutto, ma di dover scegliere le battaglie giuste, è forse uno dei segni più interessanti del realismo con cui il governo vuole muoversi. Jim Chalmers ha chiarito che non servono altre liste di desideri, ma che è necessario “selezionare gli interventi che offrono il miglior ritorno con il minor attrito politico”.

Alcune riforme auspicabili – come una revisione del sistema fiscale in senso più equo ed efficiente – restano al momento sullo sfondo, anche se il Tesoriere ha aperto alla possibilità di affrontarle nei prossimi mesi, a patto che emergano proposte serie, praticabili e capaci di generare consenso trasversale.

In questo contesto, l’apertura a un dibattito sul fisco rappresenta una novità di rilievo. Dopo un primo mandato in cui le riforme fiscali sono state limitate e prudenti, ora si prospetta la possibilità di rivedere la composizione del prelievo tra imposte dirette e indirette, incentivare il lavoro e l’investimento produttivo, e rendere il sistema più sostenibile di fronte all’invecchiamento della popolazione e alla transizione energetica.

Conto e carta

difficile da pignorare

 

Nessuna misura è ancora sul tavolo, ma l’approccio dichiarato è quello dell’ascolto e della valutazione senza pregiudizi ideologici. Anche su temi complessi e divisivi come la tassazione dei capital gain o l’eventuale rimodulazione della GST, il governo ha scelto di non chiudere la porta.

Il successo di questa strategia, tuttavia, dipenderà in larga parte dalla capacità di costruire consenso. E non è detto che questo consenso ci sia, almeno non in modo spontaneo. L’esperienza insegna che molte delle riforme più necessarie sono anche quelle più difficili da comunicare e da far accettare. Ogni incentivo fiscale inefficiente ha un gruppo di beneficiari; ogni barriera regolatoria superata incontra la resistenza di chi ne traeva vantaggio. L’esito del tavolo rotondo di agosto, in questo senso, sarà indicativo: sarà un banco di prova non solo per il governo, ma per la maturità complessiva del sistema politico ed economico australiano.

Una nota merita infine il contesto internazionale. L’evoluzione delle tensioni in Iran, l’instabilità del commercio globale, la volatilità dei prezzi dell’energia e i cambiamenti geopolitici impongono un livello di resistenza economica che solo un sistema produttivo solido e ben strutturato può garantire. In un’epoca in cui le crisi si susseguono con ritmo sempre più ravvicinato – dalla pandemia alla guerra in Ucraina, dal protezionismo americano al rischio di una guerra globale – l’Australia non può permettersi di restare immobile. Come ha sottolineato lo stesso Chalmers, la stabilità non è mai garantita: va costruita e difesa attraverso politiche pubbliche intelligenti, investimenti strategici e riforme coraggiose.

In definitiva, l’agenda della produttività delineata dal governo laburista non è perfetta, ma è coerente, articolata e ambiziosa. Il merito dell’attuale esecutivo è quello di aver posto con chiarezza il tema al centro del dibattito pubblico, evitando slogan semplicistici e mostrando una disponibilità autentica al confronto. Ora la parola passa ai soggetti sociali ed economici, chiamati a proporre soluzioni credibili e a prendersi la propria parte di responsabilità.

Perché la produttività, al netto delle formule e dei grafici, è prima di tutto una questione di fiducia. Fiducia nella capacità collettiva di affrontare il cambiamento con razionalità, senza nostalgie né paure. Fiducia nel fatto che il progresso non è incompatibile con la giustizia sociale. E fiducia nel valore del compromesso, unico vero antidoto contro l’immobilismo e la frammentazione.

Il secondo mandato di Albanese e Chalmers potrebbe dunque essere ricordato non per un singolo provvedimento, ma per l’avvio di un processo. Un processo fatto di piccoli passi, ma capaci di incidere sul medio e lungo periodo. E forse, in un’epoca in cui la politica fatica a guardare oltre il prossimo ciclo elettorale, è proprio questo il segno più incoraggiante.

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