Come un disco rotto che torna a suonare lo stesso brano, in Italia di tanto in tanto risorge il dibattito sui salari bassi. Dopo mesi in cui la questione è rimasta in ghiacciaia, il Primo maggio è stata l’occasione per rispolverarla. Ma il dibattito è sempre fermo lì dove l’avevamo lasciato: contratti collettivi contro salario minimo.
Basta sfogliare i giornali. Le due opposte tifoserie sono rimaste le stesse: la destra e la Cisl vogliono rafforzare la contrattazione collettiva per alzare i salari; le opposizioni, Cgil e Uil chiedono di introdurre anche un salario minimo legale.
Dove eravamo rimasti
A fine 2023, la maggioranza di destra aveva affossato la proposta di legge delle opposizioni (senza Italia Viva) sul salario minimo a nove euro l’ora, dando la delega al governo di intervenire entro sei mesi per costruire un pacchetto di norme per alzare i salari degli italiani. L’idea annunciata era quella di estendere i contratti collettivi più applicati, con incentivi per i rinnovi e sanzioni in caso di ritardi. Walter Rizzetto, deputato di Fratelli d’Italia e presidente della Commissione Lavoro della Camera, in un’intervista ci aveva spiegato il progetto. Un anno e mezzo dopo, però, la legge delega si trova ancora arenata in Senato e non se n’è fatto nulla.
Cosa sta accadendo
Ora la premier Giorgia Meloni ha chiesto ai parlamentari di sbloccare i lavori, con l’ipotesi di incentivi fiscali per le aziende che rinnovano i contratti entro le scadenze. Anche per non lasciare la battaglia contro il lavoro povero in mano alla Lega, che nel frattempo ha annunciato la presentazione di un suo disegno di legge sui salari. Il sottosegretario leghista al Lavoro Claudio Durigon ha lanciato la proposta di una sorta di scala mobile con l’adeguamento automatico dei salari all’inflazione, più un «trattamento economico accessorio» collegato al costo della vita nelle diverse aree del Paese. Un sistema che richiama quello delle vecchie “gabbie salariali” abolite nel 1969, che ha generato altre polemiche. Fratelli d’Italia ha già detto di essere contraria, nonostante in realtà la legge delega del governo proponga anche lo sviluppo dei contratti di secondo livello per far fronte al costo della vita su base territoriale.
Dall’altra parte, poi, ci sono le opposizioni. In questa legislatura, i partiti di opposizione hanno presentato diverse proposte di legge sul salario minimo. Dopo l’affossamento del testo a fine 2023, Pd, M5s e Avs hanno ripresentato una proposta di legge di iniziativa popolare. Ferma restando l’applicazione generalizzata del contratto collettivo nazionale di lavoro, il ddl chiede di introdurre una soglia minima inderogabile di nove euro all’ora, per tutelare «i settori più fragili e poveri del mondo del lavoro, nei quali è più debole il potere contrattuale delle organizzazioni sindacali».
Nel frattempo, si è mossa anche l’Unione europea, con la Direttiva sui salari minimi, che ha indicato a sua volta i due modi per combattere il lavoro povero: una copertura minima dei contratti collettivi nazionali all’80 per cento o l’introduzione del salario minimo. La maggior parte dei Paesi europei ha il salario minimo, tranne cinque: Danimarca, Svezia, Austria, Finlandia e Italia. Tutti Paesi con tassi di copertura contrattuale tra i più elevati. Anche Cipro, prima della direttiva, non aveva un salario minimo legale, poi lo ha introdotto nel 2023. Ma la direttiva rischia l’annullamento, dopo che l’Avvocato generale della Corte di giustizia Ue ha dato ragione a un ricorso della Danimarca, sostenuto anche dalla Svezia, definendo la normativa «incompatibile» con il Trattato dell’Unione europea perché la retribuzione è un tema di competenza esclusiva degli Stati membri.
Lo stato dei fatti in Italia
Nel nostro Paese, in teoria, non c’è un problema di mancata copertura di contrattazione collettiva. I contratti registrati al Cnel si sono moltiplicati negli ultimi anni, facendo parlare di «contratti pirata» al ribasso. Sugli oltre mille contratti registrati, però, quelli più rappresentativi sottoscritti da Cgil, Cisl e Uil sono una minima parte ma coprono oltre il 90 per cento dei dipendenti.
Secondo alcuni, in realtà, la percentuale indicata dall’Unione europea come soglia minima di copertura andrebbe considerata settore per settore, visto che ci sono comparti in cui i contratti sono molto diffusi e altri in cui lo sono molto meno. Ed è lì che si annida il lavoro povero.
Ma resta anche da capire se i contratti maggiormente utilizzati prevedano trattamenti salariali adeguati. Sappiamo che non è sempre così. Tanto che, nel famoso caso della vigilanza privata, è intervenuta la magistratura per dire che un contratto collettivo, anche firmato da Cgil-Cisl-Uil, non è di per sé garanzia di un salario sufficiente. Senza dimenticare che circa il dieci per cento dei lavoratori dipendenti riceverebbe pure una retribuzione inferiore del venti per cento rispetto al minimo tabellare del contratto collettivo di riferimento.
E poi ci sono gli enormi ritardi nei rinnovi dei contratti. Secondo Istat, a fine marzo 2025 i contratti scaduti e in attesa di rinnovo coinvolgevano circa 6,2 milioni di dipendenti. La Banca d’Italia ha scritto nel suo bollettino che la contrattazione nazionale non sarà in grado di recuperare il potere d’acquisto perso nel 2021. Il problema c’è soprattutto nei servizi e nel pubblico.
Risultato: secondo l’Organizzazione internazionale del lavoro, l’Italia è il Paese del G20 ad aver subito la perdita più marcata in termini di potere d’acquisto dal 2008, con i salari reali diminuiti dell’8,7 per cento.
Insomma, è ormai evidente che la contrattazione collettiva da sola non basta a eliminare il lavoro povero. Ecco perché si torna a parlare di salario minimo. In realtà, la questione non è nuova. Già nel 1954, il leader della Cgil Giuseppe Di Vittorio era stato uno dei firmatari, insieme a Vittorio Foa e Teresa Noce, di una proposta di legge per introdurre un salario minimo legale. La Cgil, con Maurizio Landini, per molti anni si è opposta al salario minimo, con le stesse motivazioni usate oggi dalla Cisl, salvo poi cambiare idea.
Ma – come raccontano Andrea Garnero e Roberto Mania nel loro ultimo libro – la questione salariale fino a poco tempo fa non ha ricevuto nessuna particolare attenzione anche da parte dei sindacati. Sono stati convocati scioperi generali per le più svariate ragioni, ma mai frontalmente per la questione salariale. Altri attori invece hanno cominciato a muoversi: la magistratura, ma anche gli enti locali, con i dibatti in corso a Firenze e Milano sui salari minimi cittadini.
Serve un dibattito serio
Contro il clima da opposte tifoserie, in realtà, sappiamo che contrattazione collettiva e salario minimo possono convivere. Accade già in Paesi come Francia, Belgio, Olanda, Spagna, Portogallo e Germania. Ma prima – come scrivono Garnero e Mania – servirebbe in Italia un dibattito serio sulle forze e le debolezze del salario minimo e su come possa convivere con il sistema di contrattazione nazionale. Come è accaduto nel Regno Unito e in Germania, occorre una commissione di parti sociali ed esperti che possa individuare cifre e modelli, togliendo la questione salariale alla disputa sindacale e politica.
Nel 2022 la Commissione tecnica sul lavoro povero istituita dall’allora ministro Andrea Orlando aveva anche proposto di cominciare a sperimentare un salario minimo per legge nei settori più deboli, per poter valutare adeguatamente gli impatti economici e quelli sul sistema di relazioni industriali. Ci sono settori come la chimica o le banche, che non hanno certo bisogno del salario minimo, ma altri come la logistica nei quali la questione è più urgente.
È il metodo seguito dalla Germania, dove il salario minimo è stato introdotto per tutti nel 2015. Ma già alla fine degli anni Novanta era stato sperimentato in alcuni settori, tra cui quello degli addetti alla costruzione dei tetti. Da qui sono partiti una serie di studi per valutare l’effetto, finché i sindacati stessi hanno chiesto l’applicazione generale.
Senza dati e sperimentazioni, invece, in Italia il dibattito è ancora fermo a posizioni preconfezionate che si ripresentano di tanto in tanto come un disco rotto. Certo, è vero che non basterà solo una legge a creare lavoro o a far crescere i salari. I bassi salari italiani dipendono da fattori strutturali: produttività stagnante, scarsa innovazione, piccole imprese. Ma, come ha scritto Marco Leonardi, finché non si agisce anche sul piano istituzionale, non se ne esce. E invece, da destra a sinistra, si continua a politicizzare il dibattito. E il lavoro è ormai terreno di propaganda per tutti.
Da un lato Meloni pubblica i suoi video sui social alla vigilia del Primo Maggio dicendo che i salari e il lavoro crescono. Dall’altro la Cgil, nel referendum in programma a giugno, chiede di abrogare pezzi del Jobs Act, una legge votata dieci anni fa e già ampiamente modificata. Mentre è diventato ormai normale aspettarsi l’annuncio di qualche nuova norma spot in occasione della festa dei lavoratori del Primo maggio. Come uno dei brani suonati nel concertone di Piazza San Giovanni, di cui non ricordiamo bene le parole.
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