La battaglia climatica si sposta in tribunale; ora sotto accusa sono le banche


Invece di puntare direttamente alle compagnie petrolifere, si colpiscono i canali finanziari che ne consentono la sopravvivenza. È la strategia “turning off the taps”, chiudere i rubinetti come l’ha definita la London School of Economics

Le aule di tribunale diventano il nuovo fronte della battaglia climatica. Dopo gli stati e le multinazionali del petrolio, anche le banche finiscono sotto accusa. L’obiettivo delle nuove cause è chiaro: se i rubinetti del credito continuano ad alimentare petrolio, gas e carbone, la responsabilità non è solo delle compagnie energetiche ma anche di chi le finanzia.

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Il caso dei Paesi Bassi 
 

A fine marzo la ong olandese Milieudefensie, già protagonista della storica vittoria contro Shell, ha depositato un’azione civile presso il tribunale distrettuale di Amsterdam contro Ing, il principale gruppo bancario dei Paesi Bassi. Nel mirino ci sono le cosiddette “emissioni finanziate”: i gas serra generati dalle imprese che ricevono prestiti, obbligazioni o investimenti. 

Per i ricorrenti, Ing non solo non riduce abbastanza queste emissioni, ma continua a sostenere i colossi del fossile che pianificano nuove estrazioni. La richiesta è drastica: dimezzare le emissioni totali entro il 2030, smettere di finanziare progetti fossili e imporre a ogni grande cliente un piano di transizione credibile.

Il caso olandese riprende la logica già applicata nel 2021 al colosso Shell, quando un tribunale dell’Aia ordinò alla compagnia di ridurre del 45 per cento le proprie emissioni entro il 2030.

Allora era un’azienda energetica a essere chiamata in causa; oggi il bersaglio è una banca che la sostiene. Se l’azione dovesse avere successo, il precedente giudiziario sposterebbe il baricentro: non solo chi produce inquina, ma anche chi fornisce capitale può essere ritenuto giuridicamente responsabile.

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Le ong citano a giudizio Bnp Parisbas

Un anno prima, nel febbraio 2023, un’azione analoga aveva investito Bnp Paribas. In Francia tre ong – Notre Affaire à Tous, Les Amis de la Terre e Oxfam France – hanno citato in giudizio la banca facendo leva sulla legge sul dovere di vigilanza del 2017. La norma obbliga le grandi imprese a prevenire danni ambientali e violazioni dei diritti umani lungo tutta la catena del valore. Secondo le ong, Bnp Paribas non può dichiararsi impegnata nella transizione verde mentre concede capitali all’espansione di petrolio e gas. Anche qui la richiesta è di interrompere i finanziamenti a nuovi progetti fossili e di adottare obiettivi vincolanti di riduzione delle emissioni. La banca si difende rivendicando di avere già politiche restrittive, ma le organizzazioni considerano i piani insufficienti e non compatibili con i limiti scientifici fissati dall’Ipcc.

“Turning off the taps”, chiudere i rubinetti

La London School of Economics classifica queste azioni come “turning off the taps”, chiudere i rubinetti: invece di puntare direttamente alle compagnie petrolifere, si colpiscono i canali finanziari che ne consentono la sopravvivenza. È un cambio di prospettiva che moltiplica le responsabilità. Dietro ogni pozzo o gasdotto, spiegano i ricercatori, c’è una banca che lo ha reso possibile. L’argomento non è solo etico: se il credito verso le fonti fossili continua a fluire, il percorso verso la neutralità climatica resta impraticabile.

Le conseguenze per gli istituti non sono solo reputazionali. Le cause possono tradursi in sanzioni, risarcimenti, aumento dei costi assicurativi, maggiore attenzione da parte delle autorità di vigilanza. Non è un caso che già nel settembre 2023 Frank Elderson, membro del comitato esecutivo della Banca centrale europea, avesse ammonito: le banche devono trattare il rischio climatico “a qualunque costo”. In altre parole, non basta più finanziare qualche progetto green. La vera discriminante diventa la capacità di tagliare i prestiti ai settori più inquinanti. Nel 2024, nonostante gli impegni pubblici, il sistema bancario globale ha iniettato quasi 900 miliardi di dollari nel fossile. Numeri che danno la misura dell’incoerenza tra dichiarazioni e pratiche.

Intesa Sanpaolo e UniCredit tra i maggiori finanziatori europei del fossile 

In Italia non si è ancora arrivati a un’aula di tribunale per le banche, ma lo scenario si avvicina. Nel luglio 2025 la Cassazione ha riconosciuto la legittimità di azioni civili contro imprese private per danni climatici, aprendo un varco che può riguardare anche il settore finanziario.

Intesa Sanpaolo e UniCredit risultano tra i maggiori finanziatori europei del fossile: secondo i dati del rapporto Banking on Climate Chaos, dal 2021 hanno erogato insieme oltre 17 miliardi di dollari al settore. Le ong italiane denunciano che gli obiettivi pubblicati dai due gruppi restano basati su riduzioni di intensità e non su tagli assoluti delle emissioni finanziate. Un punto critico, perché consente alle banche di migliorare gli indicatori senza ridurre davvero l’impatto complessivo dei propri portafogli.
 

La pressione di Banca d’Italia

Ma la pressione non arriva solo dalla società civile. La Banca d’Italia ha inserito nei suoi documenti di vigilanza richieste precise: i rischi climatici devono essere integrati in ogni fase della gestione del credito, dalla concessione dei prestiti alla valutazione del rischio di controparte.

È un indirizzo che rispecchia le linee della Bce e che rende più difficile per gli istituti ignorare il problema. Se un domani una banca dovesse essere accusata in tribunale di non avere considerato adeguatamente questi rischi, le parole dei regolatori diventerebbero prove a carico.

Il terreno, dunque, è pronto. Le prime cause hanno già mostrato che il diritto può diventare un’arma per forzare l’allineamento della finanza agli obiettivi climatici. In attesa che la politica definisca regole vincolanti, i tribunali rischiano di diventare l’arbitro decisivo della transizione.

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