meno tasse per pochi, conti pubblici a rischio


La Legge di Bilancio promette tagli Irpef e bonus, ma i numeri non tornano. Una manovra che favorisce i redditi alti e ignora i veri problemi del Paese.

Mentre il sipario sta per calare sul “manovramercato”, come ironicamente definito dal ministro Giorgetti, la realtà dei conti pubblici presenta il suo conto salato. La prossima Legge di Bilancio si preannuncia come un delicato gioco di equilibri, sospesa tra le promesse elettorali di tagli alle tasse e la cruda necessità di far quadrare un bilancio appesantito da un debito monstre. Le attese si concentrano sulla riforma dell’Irpef, sui bonus casa, sulle pensioni e sugli incentivi a lavoro e imprese. Ma dietro le dichiarazioni di facciata si nasconde una verità scomoda: le risorse sono scarse e le scelte che il Governo si appresta a compiere rischiano di favorire pochi, lasciando in sospeso le vere emergenze del Paese e mettendo a repentaglio la stabilità finanziaria. I dati Istat e le decisioni sul Pnrr saranno il termometro di una manovra che già si preannuncia lacrime e sangue.

Come cambierà l’Irpef e chi ci guadagnerà davvero?

L’attenzione mediatica è tutta concentrata sulla possibile riduzione dell’aliquota Irpef per il secondo scaglione, dal 35% al 33%. Un intervento presentato come una boccata d’ossigeno per il ceto medio, ma che, a un’analisi più attenta, rivela contorni ben diversi.

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La discussione verte sull’innalzamento della soglia di reddito da 50mila a 60mila euro per l’applicazione di questa aliquota. Se la soglia rimanesse a 50mila euro, il costo per lo Stato sarebbe di circa 2,5 miliardi, con un beneficio massimo per i contribuenti di appena 440 euro annui, ovvero poco più di 36 euro al mese. Se invece la soglia venisse alzata a 60mila euro, il costo lieviterebbe a quasi 5 miliardi. In questo scenario, il beneficio massimo salirebbe a 1.440 euro all’anno, ma la vera criticità è un’altra: la maggior parte delle risorse, circa 3 miliardi di euro, andrebbe a vantaggio dei quasi 2,1 milioni di italiani con redditi superiori ai 60mila euro. Si profila quindi un intervento che, lungi dal sostenere il ceto medio in difficoltà, si tradurrebbe in un generoso regalo ai redditi più alti, finanziato con le casse pubbliche.

Quale futuro per i bonus casa?

Un altro capitolo fondamentale della manovra riguarda i cosiddetti bonus casa. La Legge di Bilancio dello scorso anno ha già previsto una stretta, con la riduzione dello sconto per le ristrutturazioni dal 50% al 36% a partire dal 2026.

Ora sul tavolo del Governo c’è l’ipotesi di una proroga dell’attuale disciplina. Una mossa che appare quasi obbligata per non deprimere ulteriormente un settore, quello dell’edilizia, già provato dalla fine del Superbonus. Tuttavia, anche questa operazione ha un costo non indifferente: si stima che la proroga del bonus al 50% richiederebbe circa 2 miliardi di euro. Una cifra importante, che dovrà essere trovata in un bilancio già risicato, sollevando interrogativi sulla sostenibilità a lungo termine di queste misure e sulla loro reale efficacia nel promuovere una riqualificazione energetica e strutturale del patrimonio immobiliare italiano, spesso rivelatesi più un costo per la collettività che un reale investimento.

Cosa si prevede per lavoro e imprese?

Sul fronte del lavoro, si naviga a vista. Le proposte sul tavolo includono l’estensione della tassazione agevolata (flat tax al 5%) anche al lavoro notturno, festivo, agli straordinari e alle tredicesime, sulla scia di quanto già avviene per i premi di produttività.

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Per le imprese, invece, l’ingrediente apparentemente certo è la trasformazione in misura strutturale dell’Ires premiale, con una riduzione dell’imposta per le aziende che investono gli utili. Misure che, sulla carta, puntano a stimolare la produttività e gli investimenti. La realtà, però, è che il mondo imprenditoriale, attraverso le parole del presidente di Confindustria, chiede ben altro: un piano triennale da 8 miliardi all’anno. Una richiesta monstre che si scontra con la limitatezza delle risorse e che spinge il Governo a cercare soluzioni alternative, come una nuova rimodulazione del Pnrr per dirottare fondi europei, originariamente destinati ad altro, verso il sistema produttivo, ammettendo di fatto il fallimento di misure come Transizione 5.0.

Quali sono le incognite sul capitolo pensioni?

Il capitolo pensioni si conferma un terreno minato, un pozzo senza fondo per le finanze pubbliche. La richiesta più pressante, e costosa, è quella di bloccare l’adeguamento automatico dei requisiti anagrafici alla speranza di vita, che dal 1° gennaio 2027 comporterebbe un aumento di tre mesi dell’età pensionabile.

Bloccare questo meccanismo costerebbe da solo circa 3 miliardi di euro. Una cifra enorme che si andrebbe a sommare alle già pesanti uscite per la previdenza. Sullo sfondo, rimane sempre aperta la questione dell’indicizzazione degli assegni all’inflazione, un tema che, sebbene momentaneamente attenuato dal rallentamento della corsa dei prezzi, rappresenta una spada di Damocle perenne sui conti dello Stato. Si tratta di scelte che peseranno enormemente sulle generazioni future, chiamate a finanziare un sistema previdenziale sempre più insostenibile, mentre si trascurano investimenti vitali per la crescita del Paese.



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