Opinioni | L’Italia promossa. E adesso? | Corriere.it


Negli ultimi dodici mesi il rendimento dei titoli di Stato decennali dell’Italia si è lievemente ridotto e già solo questa è un’anomalia positiva — Svizzera esclusa — fra i Paesi avanzati. Il costo delle emissioni di debito di Roma ha recuperato 61 punti (0,61% all’anno) sulla Francia, 56 sulla Germania, 82 su Germania e Giappone, una quarantina sugli Stati Uniti, una trentina su Spagna e Grecia. Siamo il caso di pubblica virtù dell’anno, osservato da questa prospettiva.

Il ritardo da recuperare era e resta tanto, perché lo spread dell’Italia rispetto ai Paesi più affidabili rimane il più alto nell’area euro assieme a quello della Francia. Ma il progresso è sotto gli occhi di tutti: se nell’ultimo anno il costo del debito si fosse mosso come nella media dei Paesi avanzati, i contribuenti sarebbero destinati a pagare miliardi in più in interessi e oggi le famiglie o le imprese troverebbero credito in banca solo a condizioni più dure.
Venerdì sera Fitch ha preso atto di questa conclusione a cui erano già giunti i mercati e ha migliorato il giudizio sull’Italia. Non è la prima volta in questi mesi per un’agenzia di rating (S&P ci aveva già promossi in aprile) e potrebbe non essere l’ultima (Moody’s annuncia «prospettive positive»). E poiché queste valutazioni avevano un senso e un peso quando andavano nella direzione sbagliata lo scorso decennio, devono averne anche adesso che vanno in quella giusta.

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Leggi la nota di Fitch e pochi elementi di fondo saltano all’occhio. Il governo raccoglie i frutti di una politica di bilancio prudente, che diventa più credibile perché di anno in anno la riduzione del deficit va regolarmente oltre gli obiettivi annunciati. Fitch sottolinea anche l’«ambiente politico stabile» che — nota l’agenzia — è «in netto contrasto con il passato recente» quando «soffriva di rovesciamenti della linea e instabilità politica che portava a mancare gli obiettivi». In sostanza avere governi con un orizzonte di cinque anni è in sé un bene, come oggi dimostra a contrario la Francia. Ma proprio il caso francese conferma un’altra lezione che proprio l’Italia o la Grecia avevano offerto al mondo in anni recenti.
Oggi non è affatto certo che chiunque arrivi al potere a Parigi confermi la linea europea del Paese e il rispetto delle regole che tengono insieme l’euro. Il Rassemblement National di Marine Le Pen non ha mai detto che lo farà e già solo questo dubbio fra gli investitori fa salire lo spread francese sopra il nostro. È lo stesso che aveva pesato sull’Italia nello scorso decennio, ma le forze politiche lo hanno dissolto. E i risultati si vedono.

Non potrebbe dunque esserci momento migliore perpensare a tutto il resto, ciò che serve ad un Paese per guardare al presente e al futuro con fiducia nei propri mezzi. Il caso della Spagna, che anche quest’anno crescerà di quasi il 3%, dimostra che è possibile malgrado tutto: le guerre, il costo dell’energia, i dazi di Donald Trump, il mercantilismo della Cina. Oggi l’Italia sembra un caso tipico della descrizione che Mario Draghi ha fatto l’altro giorno a Bruxelles dei problemi dell’Unione europea: «Il nostro modello di crescita sta svanendo, le vulnerabilità crescono e non si vede un chiaro percorso per finanziare gli investimenti dei quali abbiamo bisogno». Malgrado i vasti e numerosi cantieri del Piano nazionale di ripresa nel 2025 — che si chiude tra meno di un anno — il Paese crescerà metà di quanto previsto inizialmente, dello 0,5% o poco più. E malgrado i continui record dell’occupazione, ai dati più recenti sale verso nuovi record anche la quota di abitanti a rischio di povertà o esclusione sociale: quasi un quarto del totale.

Com’è possibile avere allo stesso tempo più occupati, ma più poveri? Il nesso è nelle inefficienze del sistema: ogni ora lavorata in Italia produce in media il 20% di reddito in meno rispetto alla Germania e il 14% in meno della Francia (secondo la banca dati della Commissione europea). E questo scarto di produttività, a differenza dello spread finanziario, in questi anni sta continuando ad allargarsi.
È qui che tornano utili le parole di Draghi a Bruxelles, per esempio quando l’ex premier parla dell’intelligenza artificiale (AI) quale tecnologia trasformativa «come l’elettricità 140 anni orsono». Può piacere o no e sui limiti etici ci si deve interrogare. Ma chi non riesce ad applicare l’AI con efficacia, accumulerà un ritardo esponenziale, esattamente come chi arrivò tardi all’automazione meccanica dell’Ottocento. Ma dov’è l’Italia in tutto questo?
Secondo l’agenzia statistica europea Eurostat nel 2024 solo l’8% delle imprese italiane usavano l’AI, sestultimo posto in Europa dopo Cipro, Ungheria, Bulgaria, Polonia e Romania (nel 2025 gli Stati Uniti sono al 45%, la Cina al 39%, l’India al 28%). Questa è la discussione da tenere urgentemente, perché l’adozione dell’intelligenza artificiale comporta almeno tre condizioni necessarie: il saper creare e trattenere giovani competenti, investimenti in capacità digitale, più un’offerta di energia elettrica a prezzi sostenibili per alimentare banche dati ad altissimo consumo. E su questi fronti resta tanto da fare. Il decreto cosiddetto dell’«Energy Release», dopo mesi, non ha ancora portato benefici per le bollette delle imprese perché la sua versione iniziale non era adeguata. Gli sgravi di «Transizione 5.0» per gli investimenti restano in gran parte inutilizzati per l’eccessiva complessità burocratica.
Fitch certifica che l’Italia in questi anni ha coperto un pezzo di strada. Ora viene il resto.



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