I NUMERI/ Il boom della spesa assistenziale che toglie risorse all’Italia e aumenta la povertà


L’aumento della spesa assistenziale in Italia fa il paio con l’aumento della povertà. Un paradosso che penalizza il Paese

Tra il 2008 e il 2024 i trasferimenti annuali dello Stato all’Inps per sovvenzionare la componente assistenziale delle prestazioni erogate dall’Istituto non coperte dai contributi a carico delle imprese e dei lavoratori sono aumentati da 79 a 180 miliardi di euro.

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La somma complessiva degli incrementi annuali rispetto al valore delle risorse pubbliche del 2008, per sostenere a vario titolo i redditi delle persone e delle famiglie (integrazione dei minimi di pensione, assegni sociali e di invalidità, sgravi contributivi sul costo del lavoro e sui salari, contributi figurativi e sostegni al reddito straordinari per carenza di lavoro, assegni familiari e misure per le famiglie povere) supera i 600 miliardi di euro.



Le voci che hanno concorso maggiormente all’incremento sono: le prestazioni assistenziali a sostegno delle rendite pensionistiche (integrazione dei minimi, invalidità, assegni sociali passate da 56 a 97 miliardi anno); gli sgravi contributivi per le imprese e le retribuzioni per incentivare le assunzioni e aumentare i salari netti (per un valore complessivo di circa 350 miliardi); i sostegni alle famiglie per i figli a carico e per le misure di contrasto della povertà decuplicati da 3 a 30 miliardi l’anno.


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Ma le prestazioni assistenziali erogate dall’Inps per sostenere i redditi sono solo una parte delle risorse pubbliche erogate dallo Stato, e da altre amministrazioni regionali e comunali, per prevenire o contrastare l’impoverimento delle persone e delle famiglie con l’utilizzo delle dichiarazioni Isee per selezionare i beneficiari di sostegni ai redditi e per l’accesso ai servizi di diversa natura (bonus e sussidi per: natalità, scuola, prestazioni di cura, tariffe agevolate, spese alimentari, trasporti, eco incentivi, rottamazione di crediti fiscali, ecc.).

Negli ultimi 10 anni, a partire dal bonus di 80 euro mensili per i salari inferiori ai 26 mila euro lordi anno del Governo Renzi (2015), una parte delle risorse del bilancio dello Stato è stata destinata a sostenere i salari medio bassi per supplire alle carenze della contrattazione collettiva. Per l’assenza di un’anagrafe nazionale delle misure assistenziali, ovvero di criteri condivisi per valutare le prestazioni, l’importo complessivo delle risorse impegnate non è nemmeno quantificabile.



L’efficacia della spesa pubblica può essere valutata sulla base degli specifici obiettivi delle misure, ovvero per la comune finalità di prevenire o contrastare in modo adeguato l’impoverimento delle persone. Secondo l’Istat, nel periodo preso in considerazione, il numero dei residenti in Italia in condizioni di povertà assoluta è raddoppiato, da 2,8 a 5,7 milioni, ed è aumentato anche quello delle persone che rischiano di diventare povere (8,5 milioni).

Il fenomeno merita delle spiegazioni. La spesa destinata a sostenere i bassi redditi ha registrato due impennate nel corso delle due grandi crisi economiche (2008 e 2020) che hanno contribuito a estendere la domanda di sostegni al reddito e di pensionamenti anticipati, con effetti imitativi tra le categorie economiche e sociali coinvolte. Ma anche nelle fasi di ripresa dell’economia si è progressivamente assestata su valori superiori, indipendentemente dalle caratteristiche politiche dei Governi in carica. Una tendenza motivata anche dalla crescita del numero delle persone anziane, che alimenta una parallela domanda di prestazioni sociali.

Le politiche per il sostegno dei bassi redditi sono diventate il mantra della domanda e dell’offerta di prestazioni da parte delle forze politiche e delle istituzioni che produce effetti degenerativi sulla spesa pubblica, sui comportamenti delle persone, con esiti finali che comportano paradossalmente una penalizzazione dei ceti sociali meno abbienti. Un esempio classico è fornito dal numero delle persone, oltre 30 milioni, che accedono alle prestazioni e ai servizi con l’ausilio delle dichiarazioni Isee. Una modalità introdotta con la riforma del 2012 per condividere tra tutte le Amministrazioni pubbliche i criteri di valutazione dei redditi e dei patrimoni dei nuclei familiari per selezionare rigorosamente i nuclei familiari meno abbienti e che necessitano di prestazioni assistenziali.

L’innovazione è stata paradossalmente utilizzata dalle forze politiche per aumentare la gamma delle promesse elettorali, e per renderle successivamente sostenibili per contenere l’impatto sulla spesa pubblica. Sul versante delle aspettative dei potenziali beneficiari ha fornito un ulteriore impulso per la crescita del malcostume di sotto dichiarare i redditi percepiti o di frazionarli tra gli appartenenti dei nuclei familiari, per evadere le tasse, beneficiare dei sostegni al reddito e dell’accesso agevolato ai servizi pubblici e, se possibile, sommarli con gli introiti derivanti dalle prestazioni lavorative sommerse.

I riflessi ambientali di questi comportamenti trovano un’ampia conferma nella mappa dei contribuenti fornita dalla Agenzia delle Entrate (il 40% dei quali non paga nemmeno un euro di tasse a fronte del 14% di quelli attivi che finanziano i due terzi degli introiti delle imposte dirette). La scarsa credibilità delle dichiarazioni Isee è ampiamente confermata dagli esiti delle indagini campionarie della Guardia di finanza sulla congruità dei redditi e dei patrimoni dichiarati.

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L’estensione del numero delle categorie economiche e sociali che beneficiano delle prestazioni assistenziali sta comportando un doppio svantaggio per la quota delle persone più povere che trova conferma nella recente indagine dell’Istat relativa all’impatto dei trasferimenti pubblici sulla redistribuzione del reddito. Ipoteca l’utilizzo delle risorse disponibili per prestazioni che tendono a soddisfare le richieste dei ceti economici e sociali più rappresentativi, a discapito dei fabbisogni emergenti, ad esempio la crescita del numero delle persone non autosufficienti e delle persone disagiate e prive di solide relazioni familiari e sociali.

L’analisi delle criticità potrebbe essere estesa anche alla carenza dei controlli preventivi sulle dichiarazioni Isee, resa precaria dalla carenza di informazioni sui redditi e sui patrimoni dei richiedenti condivise tra amministrazioni, e dalla concreta applicazione delle sanzioni, ad esempio per la mancata accettazione delle offerte di lavoro.

L’esito finale di queste tendenze è una crescita delle prestazioni assistenziali superiore a quella del Prodotto lordo interno, che dovrà fare i conti con la perdita demografica di circa 5 milioni di persone in età di lavoro e del contemporaneo pensionamento delle generazioni del baby boom che hanno garantito la crescita dei risparmi familiari e la sostenibilità delle prestazioni sociali.

Nel caso italiano, l’aumento della spesa assistenziale può essere paragonato a una gigantesca trappola della povertà che genera effetti opposti a quelli desiderati.

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