Marche e Umbria come il Sud? La nuova geografia economica dell’Italia


Le elezioni nelle Marche sono vicine e la campagna elettorale è al suo culmine: alcune recenti misure adottate dal governo Meloni sono state lette da diversi osservatori come un sostegno al candidato del centrodestra, il presidente uscente Francesco Acquaroli. Probabilmente è così, ma c’è un provvedimento che non può essere ricondotto soltanto a una logica elettorale e merita un’analisi più attenta: l’estensione della Zes unica – la zona economica speciale finora riservata alle regioni del Sud – anche a Marche e Umbria. Si tratta di una scelta cruciale. Non riguarda soltanto incentivi fiscali od opportunità per le imprese, ma apre uno scenario nuovo nella geografia economica italiana: per la prima volta due regioni appartenenti a un territorio ben sviluppato del Centro del Paese vengono incluse in un contesto che fino a ieri era prerogativa del Sud.

È una misura che solleva interrogativi di lungo periodo. Marche e Umbria, un tempo protagoniste della “Terza Italia”, dei distretti industriali e della manifattura diffusa, hanno progressivamente perso terreno e registrato performance simili alle regioni meridionali. L’allargamento della Zes, dunque, non è solo un fatto tecnico: è un cambiamento che tocca equilibri economici e politici e che merita di essere analizzato in profondità. Per coglierne la portata non basta fermarsi alle contingenze della campagna elettorale: occorre ricostruire il lungo percorso storico ed economico che ha ridisegnato la mappa dello sviluppo italiano.

Mutuo 100% per acquisto in asta

assistenza e consulenza per acquisto immobili in asta

 

Dopo la Seconda guerra mondiale, grazie a politiche straordinarie come la Cassa per il Mezzogiorno e all’integrazione europea, prese avvio un processo di convergenza durato circa vent’anni, che portò il Nord Est e il Centro ad avvicinarsi al più industrializzato Nord Ovest, mentre il Sud conobbe una significativa fase di convergenza col resto del Paese. Negli anni Settanta, i cambiamenti dell’economia globale – dissoluzione del sistema di Bretton Woods, shock petroliferi, crisi del modello fordista – interruppero questo processo nel Mezzogiorno, dove tornarono a manifestarsi le sue storiche fragilità. Nel frattempo, le regioni del Nord Est e di parte del Centro continuarono a crescere, riducendo ulteriormente la distanza con il Nord Ovest industriale. È in questo scenario che s’iniziò a parlare di “Terza Italia”, per indicare un’area compresa tra Veneto, Emilia-Romagna e alcune regioni centrali, tra cui Toscana, Marche e Umbria. Questi territori si caratterizzavano per un tessuto produttivo dinamico e flessibile, in grado di rispondere con rapidità alle oscillazioni della domanda internazionale e di adeguarsi alle trasformazioni del contesto economico globale. Tra la metà degli anni Settanta e la fine del Novecento, quest’area conobbe tassi di crescita del Pil e dell’occupazione superiori sia alla media nazionale sia al Nord Ovest, ridefinendo così la geografia economica del Paese in due soli grandi blocchi: da un lato il Nord-Centro, inserito nel gruppo delle economie avanzate dell’Europa occidentale, dall’altro il Mezzogiorno, ancora contraddistinto da un reddito pro capite significativamente più basso.

Il modello marchigiano e umbro non è stato capace di affrontare il salto tecnologico – internet, automazione digitale, big data, digitalizzazione dei processi produttivi, robotica – che ha trasformato negli ultimi anni l’economia globale

Tale equilibrio, tuttavia, non era destinato a durare. La svolta arriva nel nuovo secolo. Il Pil pro capite umbro crolla dopo il 2000: allora era superiore del 20% rispetto a quello medio europeo, nel 2022 è pari solo all’83%. L’Umbria perde oltre 70 posizioni nel ranking delle regioni europee. Peraltro, negli ultimi anni si è registrato un significativo calo demografico, maggiore del resto del Paese e con proiezioni future inquietanti: l’Istat ipotizza una contrazione della popolazione residente regionale nel 2042 di quasi l’8% rispetto al 2022. Le preoccupazioni riguardano anche una scarsa capacità d’innovazione da parte delle imprese (bassi livelli di spesa in ricerca e sviluppo, basso grado di digitalizzazione ecc.) e una forte diminuzione della produttività.

Nello stesso periodo il Pil pro capite delle Marche è passato dal 116% al 91% della media Ue, perdendo in vent’anni circa cinquanta posizioni nel ranking Ue. Se guardiamo al periodo più recente, quello compreso fra 2008 e 2023, l’economia marchigiana ha registrato un andamento peggiore rispetto alla media nazionale e anche a quella dell’Italia centrale. Alla fine di questi quindici anni il valore aggiunto in regione risulta ancora inferiore di 5 punti percentuali rispetto al 2007, anno d’inizio della crisi finanziaria. Secondo la Banca d’Italia, hanno contribuito negativamente tutti i settori produttivi: l’industria in senso stretto, ma anche le costruzioni, l’agricoltura e il terziario. Non si tratta quindi di difficoltà circoscritte a singoli comparti, ma di un problema sistemico.

Assistenza e consulenza

per acquisto in asta

 

Le caratteristiche del tessuto manifatturiero delle due regioni – composto da numerose imprese medie, piccole e piccolissime, spesso organizzate in forma di distretto – avevano favorito la capacità di adattarsi ai mutamenti dell’economia internazionale negli anni Settanta, ma nel nuovo secolo la stessa operazione non è riuscita. Il modello marchigiano e umbro non è stato capace di affrontare il salto tecnologico – internet, automazione digitale, big data, digitalizzazione dei processi produttivi, robotica – che ha trasformato negli ultimi anni l’economia globale. Ne ha recentemente sintetizzato le cause un economista dell’Università politecnica delle Marche: la dimensione ridotta delle imprese; una governance inadeguata; il radicamento nei settori tradizionali; la debolezza del modello learning by doing. Mentre le politiche industriali, regionali e non solo, non hanno saputo rispondere alle nuove sfide (cfr. D. Iacobucci, I territori in difficoltà all’interno del Centro-Nord, in I divari territoriali in Italia. Cause, effetti e politiche di contrasto, a cura di G. Viesti,​​​​​​ Carocci, 2024). Il futuro non appare roseo. Se è vero che nei prossimi anni l’Intelligenza artificiale trasformerà tutti i comparti produttivi, inclusi quelli più tradizionali, la difficoltà di Marche e Umbria di adattarsi al cambiamento tecnologico è molto preoccupante. La mancata adozione dei nuovi strumenti potrebbe causare un’ulteriore perdita di competitività.

I fatti fin qui richiamati sono all’origine dell’ampliamento della Zes a Umbria e Marche. Sicuramente le due regioni ne trarranno nel breve periodo benefici dal punto di vista degli investimenti e dell’occupazione, ma non è l’unica considerazione da fare, perché questa pessima performance economica va letta guardando all’intero Paese. Mentre Lazio e Toscana sono ormai assimilabili all’area settentrionale, Marche e Umbria sembrano ormai un secondo Mezzogiorno. Il dato rilevante è che l’area meridionale (o del minore sviluppo) si è andata ampliando: oggi abbiamo dieci regioni con un Pil superiore alla media Ue e altre dieci al di sotto della stessa: l’Italia è divisa in due, con un’area arretrata che si allarga.

Si avverte l’urgenza di una nuova elaborazione culturale. Non si tratta soltanto di economia: è in gioco la coesione del Paese

Di fronte a questo scenario, che cosa fa la politica? Nel centrodestra si continua a insistere sull’autonomia differenziata, proposta di matrice leghista; lo si è fatto da ultimo a inizio settembre in una riunione dei vertici di governo. L’autonomia, tuttavia, non solo è stata rigettata in larga parte dalla Corte costituzionale, ma non sembra davvero la soluzione di fronte alle difficoltà delle due regioni fin qui richiamate; al contrario, occorre sostenere di più chi si trova in una condizione difficile, secondo un principio di solidarietà.

Guardando ai partiti di centrosinistra, si sarebbe potuto immaginare che dopo aver raccolto 1,3 milioni di firme in tutta Italia contro l’autonomia differenziata, avrebbe fatto delle regioni arretrate un suo vessillo. Così non è stato perché, dopo l’annullamento del referendum, il tema è stato riposto in soffitta e la questione del Sud sembra di nuovo dimenticata. È un sintomo di un problema più ampio, che Antonio Polito ha sottolineato sul “Corriere della Sera” (Le Regioni senza più ricambio, 24.8.2025): “Il Pd governa da dieci anni le due maggiori regioni del Sud d’Italia e non ha prodotto alcuna politica o idea meridionalista”.

Anche per questo si avverte l’urgenza di una nuova elaborazione culturale. Non si tratta soltanto di economia: è in gioco la coesione del Paese. La storia della questione meridionale dimostra come grandi figure intellettuali – da Villari a Fortunato, da Nitti a Gramsci, da Sturzo a Salvemini, Dorso e Rossi-Doria – abbiano saputo tenere insieme prospettive diverse ma animate da una comune spinta etica e da un forte senso di responsabilità nazionale. Grazie anche al loro contributo il Mezzogiorno è divenuto un tema cruciale e sono state adottate politiche in grado di ridurre, almeno in parte, i divari nello sviluppo.

Oggi il contesto è mutato ma la sfida rimane la stessa: evitare che l’Italia si spezzi in due, giungendo a una radicale contrapposizione fra i territori, della quale si sono osservati alcuni segnali durante il dibattito sull’autonomia. Solo un rinnovato impegno civico e una solidarietà effettiva verso i territori più fragili potranno impedire che nella Penisola si accentui sempre di più la divisione tra le aree avanzate e quelle rimaste indietro. Per questo sarà necessario affrontare i divari regionali con strumenti economici efficaci, ma anche attraverso una riflessione culturale che punti a coinvolgere l’intero Paese.

Assistenza e consulenza

per acquisto in asta

 



Source link

***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****

Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link

Source link

Richiedi prestito online

Procedura celere