Virginia Pigato (Techstars): “Per riconoscere startup di talento serve la diversità di pensiero”


Virginia Pigato ha fatto il giro del mondo prima di tornare a Torino. Nata da padre italiano e madre domenicana, dopo esperienze in Australia, Olanda e Stati Uniti, oggi è investor presso Techstars, uno dei più importanti acceleratori internazionali. L’Osservatorio Startup Thinking degli Osservatori Digital Innovation del Politecnico di Milano l’ha intervistata per discutere cosa significa davvero costruire un ecosistema imprenditoriale solido e inclusivo.

Il tempo come infrastruttura per crescere

<<It takes time to create and foster an ecosystem that can empower and support a new generation of entrepreneurs>>, aveva scritto Virginia su LinkedIn. Un concetto che approfondisce con chiarezza: “Per me quello che manca è il tempo, non abbiamo avuto il tempo per consolidarci come altri attori europei”.

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Fostering an ecosystem per Techstars significa seguire le startup dall’inizio alla fine, che sia un exit o una chiusura. L’approccio dell’acceleratore si basa su un coinvolgimento attivo e continuativo che va oltre il semplice investimento finanziario. Non si tratta del classico rapporto basato su reportistica a distanza, ma di un mentoring settimanale nei primi mesi che gradualmente si dirada ma non si interrompe mai. “Cercando anche di includere tutti nel processo: aziende, università, governo”, spiega Pigato, evidenziando come l’ecosistema richieda la partecipazione di tutti gli attori.

Questo modello funziona anche perché si è riequilibrato il rapporto di forza tradizionale. Il potere contrattuale non è più esclusivamente nelle mani degli investitori: i founder oggi possono scegliere con maggiore consapevolezza chi li accompagnerà nel percorso imprenditoriale. La nuova generazione di imprenditori apprezza investitori che dimostrano autenticità, pragmatismo e un approccio genuinamente umano al business.


Il ruolo dell’investor pre-seed: fiducia e risultati

Confrontando l’Italia con altri ecosistemi europei, Pigato individua la vera carenza nel nostro Paese. Non si tratta di mancanze tecniche o di preparazione imprenditoriale, ma di qualcosa di più profondo e strutturale. “Ai founders non manca niente se non la fiducia”, osserva.
Negli ultimi anni, molti founder hanno iniziato a diffidare dei fondi di venture capital, percepiti come troppo rigidi e poco disposti ad accompagnare le startup nei loro stadi più acerbi. “I founder sono stufi: spesso preferiscono percorsi più tradizionali, da PMI, piuttosto che confrontarsi con VC che si aspettano startup già mature”, spiega.

Ma secondo Pigato questo approccio tradisce una visione riduttiva del ruolo dell’investitore, soprattutto in fase early-stage. “Non puoi aspettarti un prodotto finito: investi in qualcosa che ha ancora molti pezzi acerbi. Alcuni team sono pronti, altri hanno bisogno di essere sostenuti, e non sempre è facile capirlo con un’analisi standardizzata. Eppure, spesso sono proprio le startup più grezze all’inizio ad avere la crescita più rapida”.

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È qui che entra in gioco la responsabilità attiva dell’investitore: capire dove spingere, dove rallentare, dove semplicemente esserci. “Serve qualcuno che ti dica: Dai, vai un po’ più in là, sogna più in grande. Magari ti schianti, ma provaci”.

A volte, i risultati più significativi non si vedono subito e non fanno notizia. “Ognuno di loro si porta a casa qualcosa, ma per me soddisfazione più grande é vederli camminare sulle proprie gambe. Avere fame e sapere come chiudere un contratto, saper mettere in dubbio tutto quello che hai fatto, strutturare i processi per far entrare altre persone. Sono quelle cose che in momenti difficili ti impediscono di cadere a terra”, racconta Pigato. E sono proprio quei passaggi silenziosi, spesso invisibili dall’esterno, che fanno la differenza tra una buona idea e un’impresa che regge nel tempo.

Chi investe plasma chi innova: il valore della diversità nei VC

L’esperienza personale di Virginia illumina uno dei bias più invisibili del settore venture capital. Essere spesso l’unica donna nella stanza, e per di più con background italo-domenicano, le ha fatto comprendere quanto sia cruciale avere punti di vista diversi negli investimenti. La diversità non è solo una questione etica ma strategica: “La diversity lato investor aiuta la diversity lato founder. È una questione di bias che uno si porta”, riflette, sottolineando come gli investitori tendano inconsciamente a privilegiare profili simili.

Prima ancora che un problema numerico, è un tema di rappresentazione. “Banalmente, quando ero più giovane, io non avevo una persona a cui guardare e ispirarmi che fosse simile a me”, racconta, evidenziando quanto pesi l’assenza di role model con percorsi non convenzionali. E anche quando si riesce ad entrare nel settore, non è detto che si venga ascoltati davvero. “Devi essere super-conscio del tuo pensiero critico, trovare un punto di vista diverso ma non troppo da risultare outstanding”, spiega.

Il problema va oltre il genere e tocca anche la formazione e il background professionale. Quando tutti gli attori del settore provengono dagli stessi percorsi formativi e professionali, si crea una pericolosa omogeneità di pensiero. “Se tutti abbiamo fatto McKinsey e abbiamo tutti studiato in Bocconi, è ovvio che è difficile poi quando ci ritroviamo cercare di pensare in modo diverso”, osserva Pigato, evidenziando come questa uniformità limiti la capacità di riconoscere talenti non convenzionali.

Portare l’innovazione dove non arriva per attrarre founders da percorsi diversi

Per Virginia Pigato la vera sfida per costruire un ecosistema più inclusivo e diversificato passa dall’educazione precoce. Non si tratta di formare gli imprenditori del futuro, ma di ampliare gli orizzonti delle nuove generazioni prima che si cristallizzino percorsi e aspettative tradizionali. L’obiettivo è lavorare con licei e scuole medie per “far vedere cosa c’è fuori, soprattutto in contesti che sono molto lontani da questo”, portando la conoscenza del mondo startup anche in aree geograficamente e culturalmente distanti dai centri dell’innovazione.

Non servono contenuti virali né promesse di successo facile, ma strumenti di base, raccontati in modo accessibile. “Perché se non rendi accessibile questo mondo, non lo puoi cambiare”. Solo così si può sperare di attrarre background davvero diversi, e costruire un ecosistema che sia lo specchio di una società più ampia, più equa e molto più interessante.



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