Vacchi (Ima): «Un partner globale per crescere. I dazi? La miglior difesa è diventare indispensabili»


di
Daniela Polizzi

Non bisogna allontanarsi dal mercato Usa, ma rilanciare, spiega l’imprenditore: «Con il merger giusto possiamo raddoppiare le dimensioni». L’idea del ritorno in Borsa dopo la nuova fase di sviluppo

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«La ricetta contro i dazi? Sfruttare il nostro made in Italy rinforzandone il carattere. Questo significa più qualità, più stile, più affidabilità basata sull’innovazione. In sintesi, dobbiamo renderci indispensabili». Alberto Vacchi, ex presidente di Confindustria Emilia, 61 anni, terza generazione della famiglia di imprenditori bolognesi è alla guida come presidente e ceo del gruppo Ima, radici a Ozzano in provincia di Bologna. Con i suoi 2,3 miliardi, è diventato tra i player mondiali dell’industria del packaging e si è guadagnato la posizione di numero uno globale nella farmaceutica. Rifornisce clienti come Pfizer, Abbott, Bayer, Sanofi, solo per citarne alcuni nel mondo del pharma. Ma anche Nestlé, Unilever e J&J nell’alimentare.
Dalla sua torre di controllo vede come si muovono i mercati internazionali, forte di un fatturato che per l’88% è raccolto all’estero. 

«La risposta più facile sarebbe quella di rivolgersi ad altri mercati che stanno crescendo. Ma di fatto, pur essendo necessario guardare anche altrove, produrre per vendere negli Stati Uniti è assolutamente cruciale, e fa parte di un modello di crescita che abbiamo applicato negli ultimi 80 anni», dice Vacchi che ha appena completato uno stabilimento a Buffalo con un investimento di 25 milioni.
Il 2024 per Ima si è concluso con investimenti per circa 200 milioni fra ricerca e sviluppo, immobilizzazioni materiali e immateriali. È grande il cantiere aperto dall’imprenditore che guarda alla prossima fase dell’azienda che guida. «Stiamo valutando l’aggregazione tra Ima e un grande gruppo internazionale, tra Europa e Stati Uniti. Nel 2023 è entrato in minoranza il fondo Bdt & Msd Partners sulla base delle prospettive di crescita del nostro piano standalone ma le opportunità vanno colte. Ci siamo dati obiettivi quinquennali. La volontà imprenditoriale di accompagnare questo cambiamento c’è».
Qual è la vostra risposta ai dazi Usa?
«Dobbiamo identificare, e certamente lo faremo, un insieme di misure integrate adatte alle nostre specificità aziendali. Ma dato che non potremo inserire nel pacchetto la riduzione del costo del lavoro, dobbiamo tutti rimboccarci le maniche e recuperare produttività. Non bisogna allontanarsi, ma stare più vicini al mercato americano, cercare alleanze, industriali e finanziarie, aumentando le nostre capacità di produrre ed assemblare Oltreoceano. Non bisogna rinunciare bensì rilanciare — è doveroso — aumentando gli investimenti in quelle aree per aumentare la capacità competitiva».
Come si sta muovendo il nostro governo?
«Penso che da parte del governo italiano sia necessaria una continua negoziazione con l’amministrazione Trump, tenendo sempre alto il livello degli accordi, scavando nicchie di vantaggio, o di azzeramento dei dazi dove siamo utili o meglio indispensabili all’economia nordamericana. Sarebbero auspicabili misure di compensazione per affrontare il tema dei dazi. Non certo a pioggia ma solo a settori in difficoltà».




















































E le aziende italiane?
«Certamente l’Italia potrebbe essere penalizzata, nella riduzione dei costi, da quello eccessivo dell’energia, se ci confrontiamo con altri Paesi Ue. Ma questo può essere ragione di trattativa per bilanciare i costi elevati del gas americano che l’Italia deve affrontare. La nostra difesa sta nelle nostre eccellenze che non sono facilmente imitabili e sostituibili nella fascia alta dei vari mercati. Ma abbiamo bisogno di nuove leve con alta formazione e con voglia di crescere. Senza ammorbidimenti da parte americana, non sarà vita facile per molte attività che hanno costruito la loro storia sull’esportazione verso il mercato più ricco dello scenario globale. Il tema concreto, oggi, è come reagire a tale situazione, sul piano industriale, per tenere il mercato americano nell’era trumpiana».
State esplorando un’aggregazione…
«Il nostro obiettivo è la crescita organica, solo con quella potremo arrivare a fatturare un miliardo in più rispetto ai 2,3 miliardi del 2024 nell’arco di cinque o sei anni. Ma se trovassimo anche un’alternativa attraverso un’operazione straordinaria potremmo raddoppiare le nostre dimensioni. Riceviamo proposte di fusione, di alleanze nelle varie catene industriali. L’idea può anche essere di disegnare un percorso assieme, a più tappe che può portare a un merger. D’altronde la crescita e la diversificazione condotte da Ima hanno consentito di compensare gli impatti prodotti dalle crisi geopolitiche. Essere sul mercato con dimensioni più significative avrebbe ricadute positive anche sui margini».
Il mercato si aspettava un’operazione tra Ima e Promach, l’azienda americana del packaging in portafoglio al fondo Bdt & Msd Partners…
«Dopo un’attenta analisi ci siamo fermati. Promach ha grandi capacità e competenze, ma non c’erano i presupposti per una fusione».
Nel caso di una grande operazione, quanto pesa il tema del controllo?
«Nessuno guarda più al controllo tradizionale con il 51%. Attraverso i diritti di voto si può avere un’influenza importante sulle aziende. Sulla base del cambiamento che stiamo impostando sono entrati, non solo il fondo americano ma anche le famiglie di industriali che hanno investito nell’operazione al nostro fianco. In fondo al percorso vediamo Ima tornare sul mercato».
L’dea è di tornare in Borsa?
«Non sappiamo se in Europa o negli Stati Uniti, il percorso è ancora molto lungo ma la visione è chiara. Post crescita organica o post fusione vorremmo che Ima tornasse quotata. Dopo il delisting del 2021 abbiamo avviato la trasformazione dell’azienda che è cresciuta e ha un margine operativo più che raddoppiato. Vediamo se ci saranno le condizioni».

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