L’accordo raggiunto a fine luglio tra von der Leyen e Trump, e definito in modo più specifico nel documento congiunto di fine agosto, ricalibra i dazi in favore degli Stati Uniti; i restanti impegni gravanti sull’UE (relativi, per esempio, agli investimenti europei negli USA e agli acquisti di prodotti energetici e militari) sono però formulati in termini piuttosto generici, più come intenzioni o previsioni che come obblighi, e in parte non si discostano dalla situazione attuale. Lo stesso vale per le disposizioni su barriere non tariffarie, diritti e regolamentazioni: dichiarazioni di intenti senza tempistiche che rendono l’accordo meno oneroso di quanto, a prima vista, appaia.
* * *
Il 27 luglio, a Turnberry in Scozia, Ursula von der Leyen e Donald Trump hanno raggiunto un’intesa di massima su dazi e commercio tra Stati Uniti e Unione Europea. Il 28 agosto è stato poi pubblicato il Joint Statement, un documento congiunto di diciannove punti su dazi, energia, tecnologia, investimenti, difesa e regolamentazioni, che questa nota analizza insieme alla successiva proposta della Commissione Europea per renderlo operativo.[1]
Si riduce l’incertezza sui dazi
Dai primi punti del documento emerge uno squilibrio in favore degli Stati Uniti. L’UE (punti 1 e 2) si impegna ad azzerare i dazi sulle importazioni di prodotti industriali e a ridurli su ittici e agricoli. Gli Stati Uniti, invece, applicano sulle importazioni europee un dazio pari al più elevato tra il 15% e quello MFN,[2] salvo eccezioni, causando rialzi in vari settori.
Il punto 3 stabilisce che gli USA riducano al 15% anche i dazi su prodotti che Trump aveva portato a livelli ben superiori (farmaceutici, semiconduttori, legname, automobili e parti; Tav. 1), a condizione che la Commissione presenti una proposta legislativa per dare attuazione alle riduzioni previste ai punti 1 e 2. Tale riduzione è stata poi introdotta con un Ordine Esecutivo del 5 settembre, a seguito della proposta legislativa della Commissione del 28 agosto. Restano invece al 50% i dazi su acciaio e alluminio.
Nonostante l’asimmetria sui dazi tra UE e USA, l’accordo riduce l’incertezza che ha caratterizzato gli ultimi mesi, offrendo alle aziende americane ed europee un quadro stabile dei dazi applicati, sebbene restino da chiarire alcune ambiguità interpretative. L’UE, inoltre, beneficia di un trattamento più favorevole rispetto ad altri Paesi – ad esempio Brasile (50%), India (50%) o Canada (35%) – ma non rispetto al Giappone (pure al 15%) e al Regno Unito (10%).[3]
Più impegni su acquisti e investimenti, meno barriere, ma l’incertezza rimane
Se l’accordo è abbastanza chiaro sui dazi, le altre azioni previste a carico dell’UE sono formulate in modo piuttosto vago.
Dopo il breve punto 4, che prevede l’avvio di negoziati per definire nuove regole volte a determinare la provenienza delle merci (le cosiddette rules of origin), il punto 5 esprime l’intenzione dell’UE di acquistare gas, petrolio e prodotti nucleari per 750 miliardi di dollari in tre anni. L’apparente impegno ha suscitato l’attenzione dei media nonostante le sue implicazioni pratiche restino incerte. Infatti, in quanto istituzione, l’UE non acquista direttamente prodotti energetici: a farlo sono le imprese dei singoli Paesi Membri. Non a caso, il testo parla solo di un’intenzione (“the European Union intends to procure…”), e non è detto che si traduca in fatti, necessitando un’attuazione tutt’altro che semplice. Per comprendere l’entità della promessa, 750 miliardi in tre anni sono, in media, 250 miliardi l’anno, contro i 76 miliardi importati nel 2024, esclusi i prodotti nucleari (vedi Fig.1 per il balzo che gli acquisti di petrolio e gas dovrebbero subire).[4] L’UE aveva già intenzione di ridurre la dipendenza dal gas russo acquistando quello americano, ma un aumento di più del triplo appare del tutto irrealistico. Nel 2024, infatti, le importazioni europee di petrolio e gas provenivano per il 21% dagli Stati Uniti; secondo i numeri dell’accordo tale quota salirebbe al 70%. Inoltre, la domanda di idrocarburi da parte dell’UE, in calo dal 2006 (Fig.2), è destinata a ridursi ulteriormente per rispettare l’obiettivo di tagliare le emissioni di gas serra del 55% entro il 2030.[5]
Non sarebbe comunque la prima volta che gli Stati Uniti sottoscrivono accordi a loro vantaggio che la controparte non riesce poi a onorare. Nel 2020, ad esempio, la “Fase 1” dell’Economic and Trade Agreement con la Cina prevedeva importazioni energetiche per 66 miliardi di dollari entro il 2021; Pechino ne acquistò 31 miliardi, meno della metà.[6]
Tornando al testo dell’Accordo, il punto 5 menziona anche l’intenzione dell’UE di acquistare microchip per l’intelligenza artificiale dagli Stati Uniti per almeno 40 miliardi, un po’ più di 13 miliardi l’anno. I due maggiori importatori di chip in Europa risultano essere Germania e Paesi Bassi, con acquisti per 5,7 miliardi di dollari nel 2024; non distante dall’aspettativa se si considerano anche gli altri Paesi.[7] Rispetto al precedente, questo obiettivo appare non solo meno irrealistico, ma addirittura poco impegnativo.
Generici sono anche i termini usati nel punto 6 per parlare di investimenti delle imprese europee negli USA: 600 miliardi di dollari nel triennio 2026-2028. È una stima basata su consultazioni con aziende europee ed espressamente formulata come previsione (“are expected to invest…”) piuttosto che come impegno legale. In ogni caso, investimenti dell’ordine di 200 miliardi l’anno rientrano in una normalità che rende i termini dell’accordo una semplice estensione dello status quo: nel 2024, infatti, le imprese europee hanno già destinato agli Stati Uniti 205 miliardi di dollari in investimenti diretti.[8]
Anche il testo del punto 7 si mantiene sul generale: la previsione (“The European Union plans …”) riguarda l’aumento degli acquisti di equipaggiamenti militari dagli USA, una probabile conseguenza dell’impegno preso in sede NATO di aumentare la spesa militare dei singoli Paesi membri. È però significativo come manchino importi specifici in quest’area.
Infine, i punti relativi a barriere non tariffarie si riducono a un elenco di impegni generici (“commitments”), rinviati a discussioni future, che spaziano dalle certificazioni sanitarie alla deforestazione fino alla concorrenza lungo la catena del valore. Tra le altre cose, Stati Uniti e UE convengono che:
- Venga rafforzata la cooperazione digitale, con l’intenzione (anche in questo caso una dichiarazione di intenti più che un impegno vincolante) di non introdurre dazi sulle trasmissioni elettroniche di dati né sull’uso della rete da parte delle imprese americane, in particolare le Big Tech;
- Si compiano sforzi per discutere, in un futuro indeterminato, di diritti del lavoro e di standard a tutela della proprietà intellettuale;[9]
- Ci si adoperi affinché le direttive europee CSDDD e CSRD, che impongono alle imprese operanti nell’Unione vincoli per assicurare la sostenibilità ambientale e sociale lungo la “catena di valore” (impegni, peraltro, in corso di revisione al fine di essere attenuati), non costituiscano “indebiti ostacoli” al commercio transatlantico.[10]
Il testo non fornisce esempi di casi specifici sui quali intervenire, né tempistiche e affermazioni di tipo vincolante, limitandosi a dichiarazioni di generica intenzionalità.
Infine, il Regolamento di attuazione dell’accordo proposto dalla Commissione precisa che l’Europa si riserva di sospendere l’abbassamento dei propri dazi in caso di inadempienze da parte degli USA o di grave pregiudizio all’industria dell’Unione.
[2] Il dazio MFN (Most-Favoured-Nation) è l’aliquota doganale non discriminatoria che uno Stato applica, ai sensi delle regole OMC (Organizzazione Mondiale del Commercio o WTO), a tutte le importazioni provenienti dai suoi membri: se un Paese impone un dazio più basso a un Paese dell’OMC, dovrà estenderlo a tutti gli altri. Nell’accordo tra UE e USA sono esclusi dal dazio del 15% le risorse naturali non disponibili negli USA, quali aeromobili, farmaceutici generici, loro ingredienti e precursori, che restano al MFN.
[3] I dazi riportati per questi Paesi corrispondono a quelli presentati dall’Executive Order della Casa Bianca del 5 settembre (vedi il link).
[7] Nel 2024 l’export globale di chip americani per l’IA è stato di 58 miliardi (vedi il link). Non sappiamo quale quota sia andata cumulativamente all’UE, ma destinarne circa 13 miliardi l’anno all’Europa non appare irrealizzabile.
[9] Le parti si riferiscono agli standard fondamentali dell’ILO (International Labour Organization). Riguardo la proprietà intellettuale: per un riferimento europeo vedi il link, per un riferimento agli standard americani vedi il link.
[10] Il CSDDD (Corporate Sustainability Due Diligence Directive) impone alle imprese di vigilare e intervenire su impatti ambientali e diritti umani nelle catene del valore. Il CSRD (Corporate Sustainability Reporting Directive) obbliga le imprese a rendicontare in modo uniforme i dati di sostenibilità.
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link