Il mondo capovolto del lavoro: non ci sono più i giovani a fare la fila per entrare, ora le aziende inseguono i talenti


L’alto turnover, la fuga dei giovani e la scarsità dei talenti sono solo alcuni dei problemi con cui hanno a che fare le aziende oggigiorno. Come affrontarli? I suggerimenti di Paolo Iacci che anticipa per la rubrica Futuro da sfogliare alcuni dei temi del suo ultimo libro “La rivoluzione silenziosa”, edito da Egea, casa editrice dell’Università Bocconi

Quali sfide attendono la società di domani? Quali sono i rischi e quali le possibilità offerte dallo sviluppo tecnologico? Per la rubrica “Futuro da sfogliare” un estratto del libro La rivoluzione silenziosa di Paolo Iacci, edito da Egea.

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Nel gennaio del 1986, l’America si preparava a un evento epocale. Il lancio dello Space Shuttle Challenger rappresentava non solo un nuovo passo verso l’esplorazione spaziale, ma anche un momento storico: per la prima volta, un’insegnante, Christa McAuliffe, sarebbe andata nello spazio. Le scuole di tutto il Paese si erano mobilitate, milioni di studenti avrebbero assistito in diretta. C’era una speranza tangibile nell’aria, una promessa di progresso e di futuro. Ma, dietro il sipario di entusiasmo e ambizione, la realtà organizzativa della NASA era molto più complessa e quel sogno poggiava su fondamenta fatte di silenzi, di indifferenze e di avvertimenti ignorati.

Nei mesi e nelle settimane precedenti al lancio, diversi tecnici avevano sollevato allarmi, ma erano stati sistematicamente ignorati o messi a tacere. Un ingegnere specializzato nelle guarnizioni degli O-ring aveva evidenziato il rischio legato alle basse temperature: in caso di freddo intenso, le guarnizioni avrebbero potuto irrigidirsi, compromettendo il sigillo dei razzi a propellente solido. Non era la prima volta che manifestava preoccupazioni. Già in missioni precedenti problemi simili erano stati osservati, anche se si erano risolti fortunosamente senza disastri. Ogni volta, però, la risposta era stata la stessa: la pressione dei tempi, le aspettative del pubblico e il bisogno di non rallentare un programma già in ritardo prevalevano su qualsiasi allarme tecnico.

In parallelo, altri specialisti avevano sollevato questioni relative al comportamento dei materiali a determinate altitudini e alle anomalie riscontrate nei sensori di alcuni componenti critici della navetta. Questi segnali di avvertimento, però, erano finiti per lo più nel vuoto. Le ripetute segnalazioni venivano percepite come altrettanti ostacoli sulla strada del lancio e ogni ritardo significava perdere prestigio e credibilità agli occhi del pubblico e del governo. A questo si aggiungeva una cultura interna in cui le gerarchie erano ferree: chi parlava da una posizione inferiore spesso veniva ignorato o, peggio, deriso. La fiducia nella tecnologia, e soprattutto nel processo organizzativo della NASA, sembrava inviolabile. Persino i dirigenti più esperti, pur riconoscendo il valore delle competenze tecniche, consideravano gli allarmi come esagerazioni o eccessi di prudenza. Il rischio zero non esisteva, e con una tabella di marcia così stretta, l’unica soluzione era andare avanti, a ogni costo. A poco a poco si era sviluppata, tra i team del progetto, una sensazione di indolenza diffusa. Forse le cose non stavano andando per il verso giusto, ma ognuno aveva la sensazione di non poter fare nulla e, in fondo, perché doversi battere e rischiare brutte figure per nulla: le cose si sarebbero sistemate da sole. Il Challenger, con tutti i suoi simboli di speranza, doveva volare.

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Paolo Iacci

In questa atmosfera, satura di pressioni e di silenzi, si arrivò all’ultima riunione, il 27 gennaio 1986. Roger Boisjoly, uno degli ingegneri di punta di Morton Thiokol, la compagnia responsabile dei razzi a propellente solido, prese la parola per esprimere grande preoccupazione. Le previsioni meteo per il giorno del lancio indicavano temperature al di sotto dello zero e Boisjoly non poteva ignorare il rischio di fallimento degli O-ring. Espose nuovamente i suoi dati, mostrando come il freddo avrebbe potuto compromettere la tenuta delle guarnizioni.

Il clima della riunione si fece teso, ma, alla fine, il peso delle aspettative e delle gerarchie prevalse sulla voce della ragione. I dirigenti di Morton Thiokol cedettero alle pressioni della NASA e diedero il via libera al lancio. Boisjoly e i suoi colleghi ingegneri tacquero, impotenti di fronte alla decisione che sapevano sbagliata. Non era solo un silenzio imposto, era un silenzio radicato nella disillusione, nella sensazione di essere diventati irrilevanti in un’organizzazione che ormai non ascoltava più.

Il 28 gennaio 1986, con temperature ben al di sotto dello zero, il Challenger decollò. Dopo soli 73 secondi, l’esplosione avvolse la navetta e distrusse il sogno spaziale di un’intera nazione. Le guarnizioni degli O-ring avevano fallito esattamente come temuto e le vite dell’equipaggio furono spezzate in pochi istanti.

Ma ciò che esplose quel giorno non fu solo un razzo; esplose il frutto di una cultura organizzativa incapace di ascoltare, un sistema in cui il silenzio aveva prevalso per una combinazione fatale di indolenza, pressione e sfiducia nelle voci più deboli.

Oggi guardiamo a quella tragedia come a un monito per ogni organizzazione moderna: quando il silenzio prende il sopravvento, quando le voci critiche sono ignorate o soffocate, il risultato può essere una catastrofe.

Paolo Iacci

Il «silenzio organizzativo» è un fenomeno in cui i dipendenti di un’organizzazione scelgono di non esprimere opinioni, feedback o preoccupazioni riguardo a questioni lavorative o operative, anche quando hanno informazioni rilevanti o idee da condividere. Questa situazione può derivare da cause e circostanze molto diverse. Possiamo, per esempio, assistere a una cultura organizzativa negativa: in aziende dove la comunicazione aperta non è incoraggiata i dipendenti possono sentirsi scoraggiati a esprimere opinioni. «Piuttosto che essere zittito, preferisco non pronunciare parola». Oppure pensiamo alla percezione di inefficacia: se i lavoratori ritengono che il loro contributo non porterà a nessun cambiamento, possono scegliere il silenzio. «Se esprimo un’opinione, poi mi chiedono una valanga di informazioni e approfondimenti. Questo significa ulteriore lavoro che poi si dimostra inutile perché tanto nessuno ha davvero voglia di ascoltare o di modificare le decisioni già prese. E allora perché rischiare di lavorare per niente?! Meglio farsi gli affari propri».

Come noto, la cultura organizzativa rappresenta l’insieme di valori, credenze, normi e pratiche condivise che influenzano il modo in cui le persone lavorano e interagiscono all’interno di un’organizzazione. Essa agisce come un collante che guida i comportamenti e le decisioni, esercitando un impatto diretto sia sul benessere dei dipendenti sia sulle performance complessive dell’azienda. Una cultura organizzativa positiva si distingue per la capacità di creare un ambiente di lavoro inclusivo, trasparente e orientato alla crescita. In un contesto di questo tipo, i valori aziendali sono condivisi e riconosciuti da tutti i dipendenti, che si identificano con essi. Questi valori promuovono comportamenti etici e responsabili, e la leadership gioca un ruolo chiave nel definire e sostenere tali principi attraverso l’esempio e l’azione coerente. La comunicazione aperta è un altro aspetto fondamentale di una cultura organizzativa positiva. In un ambiente del genere, la trasparenza è promossa a tutti i livelli dell’organizzazione, facilitando un clima di fiducia e rispetto reciproco. I dipendenti si sentono liberi di esprimere opinioni e fornire feedback, contribuendo così a una collaborazione più efficace e all’innovazione continua.

Di questi discorsi sono pieni i libri di management degli ultimi trent’anni. Ma la realtà delle organizzazioni è purtroppo differente. Le persone hanno un basso livello di fiducia verso le istituzioni e verso le imprese (anche se in forma diversa) e tendono a investire meno sul lavoro perché hanno la sensazione di aver dato più di quello che hanno ricevuto (o che potranno ricevere). Da questo sentimento, individuale e collettivo, la lontananza tra il dichiarato e la realtà. Tutti parlano della necessità di una cultura organizzativa inclusiva e rispettosa delle necessità individuali, ma la percezione delle persone è di segno opposto. Ma allora, il silenzio organizzativo è un pericolo reale? Oppure è solo l’ennesima boutade sociologica? Analizziamo i dati che abbiamo a disposizione.

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[…] Quando si cerca di capire il livello di coinvolgimento e il benessere dei lavoratori a livello globale, mettendo in luce le sfide che le organizzazioni affrontano nel migliorare la soddisfazione e la produttività dei dipendenti, la pubblicistica manageriale fa prima di tutto riferimento al cosiddetto «rapporto Gallup».

Il Report Gallup 2024 evidenzia come i lavoratori, a livello globale, continuino a mostrare livelli di insoddisfazione elevati⁴. I dati raccolti indicano che solo il 23% dei dipendenti si sente realmente coinvolto nel proprio lavoro, mentre il loro benessere complessivo è diminuito dell’1% rispetto al 2023. Gallup ha condotto un’indagine su un campione di oltre due milioni di lavoratori in tutto il mondo, riscontrando che la maggior parte di essi fatica a ottenere gratificazione nella propria professione, con effetti diretti sulla produttività. Nonostante questi risultati, sembra che non si stiano prendendo sufficienti provvedimenti per migliorare la situazione. Uno dei punti critici del report riguarda il livello di coinvolgimento, che rimane estremamente basso. A livello globale, soltanto il 23% dei dipendenti si sente impegnato nel proprio lavoro. Questo dato è leggermente più alto in Nord America, dove raggiunge il 33%, mentre in Italia scende drasticamente all’8%, in lieve miglioramento rispetto al 5% dell’anno precedente. La situazione è peggiore solo in Francia e Lussemburgo. Tra i lavoratori italiani emerge un diffuso sentimento di rassegnazione e tristezza, alimentato dalla percezione di non avere reali possibilità di cambiare vita, a cominciare dal proprio lavoro. Il 15% dei lavoratori italiani si dichiara «apertamente ostile» alla propria azienda.

A questo si aggiunge il fatto che il 41% dei dipendenti (tra i giovani il 65%) dichiara di essere attivamente alla ricerca di un altro impiego, una percentuale che colloca l’Italia subito dopo l’Albania. Tuttavia, solo il 32% ritiene che questo sia un buon momento per trovare lavoro nella propria area geografica, un dato che riflette un pessimismo condiviso solo dagli spagnoli, mentre i danesi si mostrano i più ottimisti con l’80%. Un altro elemento critico riguarda il ruolo dei manager, che svolgono una funzione chiave nel determinare il coinvolgimento dei dipendenti. Se il dato internazionale relativo all’engagement dei lavoratori è del 23%, quello dei manager è più alto, ma non di molto (35%). Il fatto che la maggioranza dei manager sia poco ingaggiata nel proprio lavoro è molto importante perché questi, ovviamente, sono i primi attori nel motivare i loro collaboratori. Il management è sempre più in sofferenza perché si sente isolato e schiacciato tra un vertice aziendale che chiede risultati sempre più soddisfacenti e collaboratori dai comportamenti non sempre facilmente prevedibili, in balia di mercati fortemente volubili e continue criticità inattese.





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