Tra governo e banche è braccio di ferro alla vigilia del varo della legge di Bilancio per il 2026. Da settimane è tornata in auge la proposta della Lega di stangare gli “extraprofitti” con una nuova imposta. Nuova, perché già gli istituti di credito pensavano di aver dato con il “congelamento” delle DTA per il 2025-2026. E prima ancora erano stati costretti ad accantonare a riserva un ammontare pari ad almeno 2,5 volte il versamento altrimenti dovuto al fisco. E nel dibattito s’inseriscono anche le garanzie pubbliche sui prestiti, un modo per il governo di spostare l’ago della bilancia verso di sé.
Ipotesi blocco DTA o imposta su extraprofitti
L’ipotesi di base resta di potenziare il blocco dei crediti fiscali alimentati dalle DTA. Lo stato incasserebbe per l’anno prossimo 1,5 miliardi in più. Le opposizioni nel frattempo incalzano la maggioranza per imporre una vera e propria imposta sugli extraprofitti. Lo scorso anno, gli utili dichiarati dal settore sono stati 46 miliardi. Troppi per una politica in eterna caccia di risorse per finanziare questa e quella spesa.
Boom di garanzie pubbliche con la pandemia
Il concetto di “extraprofitti” è giuridicamente opinabile, per non dire illegittimo di sana pianta. Colpire un solo settore per avere chiuso i bilanci in forte attivo è palesemente discriminatorio. Il primo a saperlo è lo stesso esecutivo guidato dalla premier Giorgia Meloni. Ecco perché negli ultimi giorni sta cercando di spostare il dibattito sulle garanzie pubbliche. Una questione delicata, che è sorta con la pandemia. Lo stato decise di garantire i finanziamenti richiesti dalle imprese alle banche, in modo da sostenere il credito e ridurre i grossi danni provocati dalle politiche anti-Covid.
Lo stesso fecero gli altri stati comunitari, chi più (come Italia, Francia e Spagna) e chi meno (come la Germania). Ad avere ricevuto garanzie pubbliche furono prestiti fino a 450 miliardi di euro nel pieno della pandemia. Pensate che non arrivavano a 86 miliardi nel 2019. Per fortuna il fenomeno è in via di rientro, pur lentamente. Lo stock è sceso a 270 miliardi, dimezzandosi dal picco. Resta oltre il triplo dei livelli pre-Covid. E adesso il governo batte cassa, pur a posteriori e per questo non meno illegittimamente rispetto alla stangata sugli extraprofitti.
Impatto sul debito pubblico
Il ragionamento che sta portando avanti con le banche a porte chiuse è il seguente. Le garanzie pubbliche hanno consentito a molte imprese di chiedere e ottenere finanziamenti altrimenti inaccessibili. Le banche li hanno concessi nella consapevolezza che, nei casi di difficoltà, sarebbe intervenuto lo stato. A guadagnarci sono stati tutti. In primis le stesse imprese, che hanno goduto di liquidità preziosa per mantenere in attività gli impianti e investire. L’economia in generale ha evitato una caduta ancora più brusca. E le banche hanno fatto profitti su crediti sicuri, beneficiando anche della solidità del loro attivo patrimoniale.
Nel 2024 ad andare in sofferenza sono stati prestiti coperti da garanzie pubbliche per 2,5 miliardi. Quest’anno al 30 giugno sono stati 500 milioni. Soldi versati dai contribuenti e che, pertanto, alimentano il già gigantesco debito pubblico italiano. In rapporto alle erogazioni, però, risultano assai contenuti. Le banche fanno notare di avere concesso credito seguendo l’ordinaria diligenza, ovvero non approfittando delle garanzie pubbliche.
Garanzie pubbliche escamotage per trovare nuove risorse
Sarà, ma il governo mette in chiaro che chi ha beneficiato di tale legislazione eccezionale, deve mettere mano al portafogli. In pratica, le banche potranno evitare la stangata sotto forma di imposta sui profitti, ma si ritroveranno a pagare in relazione alle garanzie pubbliche. Certo è che fare un simile ragionamento a posteriori rischia per il futuro di rendere inefficaci simili misure nel caso venissero ripresentate. L’obiettivo resta sempre quello di trovare qualche miliardo da destinare altrove, soprattutto al taglio dell’IRPEF. Le modalità si confermano dubbie. Gli istituti alla fine si accorderanno per sganciare qualcosa, consapevoli che il clima politico sia quasi unanimemente loro ostile.
Il paradosso consiste nel fatto che a inveire contro le banche oggi siano quei partiti che nella passata legislatura ne hanno fatto gli interessi con provvedimenti come lo sconto in fattura per i bonus edilizi. Centinaia di miliardi di euro che le imprese si sono viste anticipati dagli istituti, chiaramente dietro l’applicazione di interessi anche elevati. Basti pensare che un credito ceduto con il Superbonus al 110% del valore dei lavori è arrivato ad essere pagato dalle banche per l’85% o meno. A rilevarlo è stato il deputato di Fratelli d’Italia, Francesco Filini, secondo cui il governo avrebbe un approccio “non ideologico” sul tema.
giuseppe.timpone@investireoggi.it
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