Il costo però è stato elevato. L’inflazione ha raggiunto quasi il 26%, tornando a livelli più stabili solo nel 2024. I prezzi dei beni di prima necessità sono aumentati, colpendo la base elettorale del partito di Orbán e facendo dubitare gli elettori della sua capacità di risanare l’economia.
Nel frattempo, la Polonia prevede una crescita del 3,3% per il 2025, mentre gli interessi impliciti sul debito pubblico ungherese hanno toccato il 6%, tra i più alti d’Europa, oltre a una crescita pressoché nulla da quasi 3 anni, con una contrazione nel 2023 e una ripresa modesta nel 2024.
Per contenere l’inflazione, il governo ha introdotto controlli sui prezzi di alcuni prodotti. Ma le aziende hanno reagito alzando i prezzi di altri beni o interrompendo la produzione. Nel contempo, Orbán ha aumentato per legge pensioni e salari minimi.
La fabbrica a basso costo d’Europa
Il problema strutturale dell’Ungheria è profondo. Il Paese si è industrializzato non puntando sulla tecnologia, ma diventando la fabbrica a basso costo d’Europa, con priorità sulla creazione di posti di lavoro a bassa qualificazione e sussidi alle imprese. Non è emerso un vero hub tecnologico: la produzione ad alta tecnologia rimane limitata e il valore aggiunto è basso. Il settore automobilistico è il principale motore dell’economia ungherese. Nel 2021, quest’ultimo ha contribuito al 3,9% del PIL con una produzione del valore di 26,2 miliardi di euro, impiegando circa 100.000 persone e rappresentando il 21% delle esportazioni totali del Paese.
Le principali case presenti includono Audi, Mercedes-Benz, BMW, Opel e Suzuki. Solo Audi, dal 1993, ha investito oltre 12,5 miliardi di euro, producendo annualmente circa 1,6 milioni di motori e 177.000 veicoli, generando circa l’1,4% del PIL ungherese.
Nonostante gli sforzi per diversificare l’economia, l’Ungheria ha fatto pochi progressi nel diventare un hub tecnologico avanzato. La partecipazione a programmi europei di ricerca e innovazione, come Horizon Europe, è limitata, e poche piccole e medie imprese investono in ricerca e sviluppo. Inoltre, a marzo 2025 l’indice dei costi del lavoro nel settore manifatturiero è aumentato dell’8,4% su base annua, aumentando la pressione sui settori tradizionali.
La forte dipendenza dal settore automobilistico mostra oggi i limiti del modello. Le tensioni commerciali globali, i dazi internazionali e la transizione verso veicoli elettrici pongono sfide significative soprattutto per l’automotive tedesco, che potrebbe ridurre il personale, motivo per cui Orban si è già rifugiato sotto l’ala dei cinesi, tanto che BYD Auto ha annunciato che stabilirà lì la sua sede operativa europea.
Nonostante le continue vittorie di Orbán, la politica ungherese mostra segni di cambiamento. Alle elezioni europee del 2024, Péter Magyar e il suo partito Tisza, fondato nel 2020, hanno ottenuto il 29,6% dei voti, mentre il partito del primo ministro si è attestato al 44,66%, che sembrerebbe un ottimo risultato, se non fosse che due anni prima aveva raggiunto il 54% alle elezioni parlamentari e il 59% nel 2019 alle europee. Dunque per il neonato partito d’opposizione è un risultato sorprendente, che indica come una parte crescente della società ungherese stia cercando alternative politiche. Magyar si propone come punto di rottura rispetto alle ricette economiche di Orbán, puntando a implementare le riforme promosse da Bruxelles e a coniugare crescita economica con sostenibilità a lungo termine. Non sarà un compito facile per Magyar. In quindici anni, Orbán ha costruito una rete clientelare così radicata da essere molto difficile da sfidare. Le riforme elettorali da lui introdotte rendono quasi impossibile a una maggioranza alternativa sottrargli il controllo. Può ostacolare chiunque tenti di sfidarlo, avendo a disposizione l’intera macchina statale. La giustizia nel Paese non è del tutto indipendente e il primo ministro controlla numerosi mezzi di informazione, che sono al suo servizio.
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