Francia: è il turno di Lecornu


In realtà, sull’orlo del baratro, la Francia c’è da molti anni. L’ultimo bilancio in pareggio data 1974. Nell’era di Emmanuel Macron lo Stato ha accumulato mille miliardi di debito supplementare, raggiungendo la cifra record di oltre 3.400 miliardi, cinquantamila euro sulla testa di ogni francese. In pratica, da Giscard d’Estaing in poi, la Francia spende un po’ più delle risorse disponibili, aggravando le sue passività di bilancio. Sono cifre che sono risuonate in queste settimane, la colonna sonora della crisi politica che ha visto la caduta del governo di François Bayrou e il tentativo di Sébastien Lecornu di formarne un altro, che sarebbe il quinto nel corso del secondo mandato di Macron.  

Ma ciò che dà la sensazione di un pericolo grave non è il debito in sé. La Francia è pur sempre la seconda economia dell’Unione europea. Sistema industriale, infrastrutture, servizi, innovazione e ricerca restano un enorme potenziale di rinascita e crescita. Stati Uniti, Giappone, Grecia, Italia, per citare i Paesi più indebitati, non se la passano meglio. È la micidiale e contemporanea combinazione di diversi fattori a rendere la Francia più a rischio degli altri.  

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Oltre il deterioramento del bilancio pubblico 

Il primo è ovviamente la crisi politica senza sbocco, alimentata dalla litigiosità dei partiti e dalla scomposizione di un quadro che per decenni aveva permesso l’alternativa e la dialettica fra destra popolare moderata e sinistra riformista. Un bipartitismo quasi perfetto, che escludeva la forza anti-sistema, il Front National, la destra estrema di Marine Le Pen. Tutto questo è finito da tempo, così come è tramontato il tentativo di Macron (riuscito nel primo mandato) di rifondare il sistema creando una grande forza riformista, che inizialmente aveva raccolto ampi consensi sia a destra sia a sinistra e ridotto ai minimi termini il partito socialista e i gollisti. Il presidente si è isolato, ha visto evaporare consenso e ridursi ai minimi termini il suo movimento. Lo scioglimento dell’Assemblea nazionale e le elezioni anticipate dello scorso anno hanno prodotto un parlamento ingovernabile, in cui estrema destra ed estrema sinistra hanno la maggioranza dei seggi (e dei voti espressi, oltre all’assenteismo endemico). 

La politica non riesce a dare risposte anche perché il secondo fattore di rischio discende direttamente dal primo: la crisi è anche istituzionale. L’Eliseo resta il centro del potere come in nessun’altra democrazia, ma è quotidianamente assediato e contestato dalla piazza. La debolezza dei partiti, dei corpi intermedi, dell’Assemblea sono un ostacolo alla concertazione, al dialogo, ai ricorrenti tentativi di riforme. Il presidente francese può ancora sorprendere. Nessuno si aspettava che nominasse un nuovo primo ministro così rapidamente. Ma è quasi certo che Sébastien Lecornu non durerà a lungo a Matignon, mentre Macron cerca di placare le richieste di dimissioni e di nuove elezioni. 

L’attuale Costituzione era stata pensata proprio per evitare questo tipo di situazione. Quando il generale De Gaulle la propose nel 1958, la Francia aveva visto succedersi 24 capi di governo in 11 anni. Il sistema elettorale maggioritario avrebbe dovuto consentire l’emergere di chiari rapporti di forza in Parlamento. Invece, come ha detto il sondaggista Jerôme Fourquet, siamo di fronte a una Francia “arcipelago”. Un modo per dire che si sovrappongono ormai diverse realtà e identità che non hanno più molto in comune. 

Il terzo fattore è l’economia. La Francia produce meno, il PIL non cresce, l’occupazione è ferma. Di fatto, la seconda economia dell’UE non riesce a tamponare l’esplosione del debito. Di conseguenza, la Francia appare come un Paese profondamente ripiegato su sé stesso, sfiduciato, pessimista e arrabbiato. Le proverbiali certezze – stabilità politica, ruolo dello Stato sociale e peso sulla scena internazionale – stanno svanendo. L’instabilità politica non riesce a trovare soluzioni per uno Stato spendaccione che non attenua le diseguaglianze. Ogni volta che un governo propone tagli della spesa, scattano veti incrociati e proteste sociali. Nessuno è ovviamente disposto a pagare il conto. I francesi hanno sempre creduto nella promessa di uguaglianza. Ora non ci credono più, in particolare i perdenti della globalizzazione, le vittime della deindustrializzazione. Questo risentimento va a vantaggio soprattutto degli estremisti, dei populisti di sinistra, ma soprattutto di destra. 

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D’altra parte, la necessaria ripartizione dei sacrifici si scontra con dati oggettivi che tuttavia alimentano fra le forze politiche e nell’opinione pubblica chiavi di lettura opposte. Si afferma che lo Stato sociale è dissanguato anche da abusi, sprechi, pletora di funzionari, mancanza di controlli su quanti avrebbero davvero diritto a un insieme di prestazioni. Ma si fa anche notare che una minoranza di francesi (il ceto medio) sopporta gran parte del carico fiscale, mentre i super ricchi, grazie ad artifici contabili, pagherebbero molto meno. I super ricchi e i grandi patrimoni in questi anni si sono moltiplicati a dismisura, grazie alla borsa e al mercato immobiliare. Ai vertici della scala sociale lo 0,1% ha visto la propria ricchezza aumentare in modo esponenziale. Tra il 1996 e il 2025 il patrimonio dei 500 primi ricchi francesi è aumentato di 14 volte, secondo la rivista Challenges. In testa, fra gli altri, gli imperatori della moda, Axel Dumas (Hermès) e Bernard Arnault (LVMH). 

Uno piccolo sacrificio non sarebbe quindi né insopportabile né rivoluzionario. Si parla, ad esempio, di introdurre la controversa tassa Zucman, dal nome del promotore, già approvata all’Assemblea e bocciata al senato. La misura prevede appunto un contributo sui grandi patrimoni, 2% sulle fortune oltre i 100 milioni di euro, circa 1.800 nuclei fiscali. Lo Stato recupererebbe fra i 10 e i 25 miliardi di euro. Un calcolo a spanne, che comunque alleggerirebbe il taglio di 44 miliardi della spesa sociale proposto dal governo Bayrou e probabilmente riproposto nelle prossime settimane in una versione addolcita.  

Infine, secondo autorevoli studi, si dimostra che anche le imprese ricevono fra sgravi fiscali e incentivi una massa enorme di denaro: una cifra attorno ai 200 miliardi all’anno, quattro volte la spesa per l’istruzione. “Far ricadere lo sforzo innanzitutto su coloro che hanno di più è la base di ogni possibile compromesso”, sostiene uno dei leader della sinistra riformista Raphaël Glucksmann (Place publique). La tassa – scrive Le Monde – potrebbe correggere le disuguaglianze patrimoniali, che si sono accentuate negli ultimi trent’anni. 

Frattura “invisibile”? 

Resta inoltre inesplorata una frattura sociale ancora più profonda di quanto appaia nelle statistiche e nelle piazze delle grandi città. Ovvero il fatto che la grande maggioranza delle periferie – le famose banlieues che misero a ferro e fuoco Parigi vent’anni fa – resta marginale anche nella protesta: una sorta di rassegnazione e di auto-esclusione dal gioco politico, nonostante gli slogan che pretenderebbero di rappresentare anche milioni di giovani, di poveri, di immigrati di seconda e terza generazione, quindi francesi a tutti gli effetti, ma di seconda classe. Roland Cayrol, un noto politologo, sostiene che i francesi esprimono una “tristezza rassegnata”, una forma acuta di malinconia. 

È un potenziale serbatoio di protesta, che avrebbe più ragioni di tutti, ma che si vede poco e non si mescola con gli studenti, gli insegnanti, gli impiegati, i laureati, i pensionati e i diplomati precari, benché sicuramente anch’essi declassati e in difficoltà. È una sorta di apartheid decisa dalla storia della Francia dal dopoguerra in poi, fenomeno mai risolto, nonostante generosi interventi pubblici. È un mondo cui importa poco di difendere le giornate festive che il governo avrebbe voluto abolire o una pensione che forse non vedrà mai o l’orario di un lavoro che non ha o che è precario o part time. È anche un mondo che la politica non riesce a sedurre né con i miti della sinistra anti-capitalista ed egualitaria né ovviamente con i proclami dell’estrema destra xenofoba. I banlieusard vorrebbero banalmente e semplicemente non esserlo più, far parte a pieno titolo della società bianca, consumista, casomai alternativa nella sfera della moda e della musica.  

Mentre le cause politiche e i processi sociali che hanno provocato la crescita dell’estrema destra sono oggetto quotidiano d’indagine e sono lo specchio di un Paese contagiato dal populismo xenofobo nazionalista, la galassia protestataria che la sinistra pretende di omologare e rappresentare resta inesplorata. 

I partiti di sinistra, in particolare il fenomeno del radicale Jean-Luc Mélenchon, hanno risposto al populismo di destra con il populismo di sinistra, alimentano la contestazione delle élite e la pretesa che lo Stato protettore debba comunque dispensare sussidi. C’è però il “Paese invisibile”, nel senso che non appare nelle inchieste e nemmeno nelle piazze: certifica il fallimento del modello d’integrazione francese che, nel corso degli anni, ha prodotto risultati opposti alle aspettative e all’ideale culturale che lo ispira. Invece di bloccare tutto, sarebbe l’ora di sbloccare qualche cosa. 

Se il tentativo di Lecornu fallisse, Macron potrebbe sciogliere ancora una volta l’Assemblea. Ma molto probabilmente attenderà la prossima scadenza, le amministrative di primavera, con artifici che fanno dire ai francesi che il loro Paese si sta “italianizzando” con formule politiche che vanno dalle convergenze parallele alla non sfiducia, dai governi di tutti (sull’esempio dei governi Monti e Draghi) ai governi balneari, invernali in questo caso, per gli affari correnti. Ma la Francia resta un Paese senza una tradizione di compromesso e di coalizione come quella che si trova in Italia o in Germania. Il sistema istituzionale francese, basato sul semi-presidenzialismo, si rivela meno flessibile e meno resiliente rispetto al modello parlamentare italiano, spesso criticato, ma che ora sembra più efficace nella gestione delle crisi profonde. 

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