Azionario Usa, il motore dei portafogli globali


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Da secoli un misterioso oggetto solca i cieli, accolto come un oscuro presagio. La cometa di Halley, a ogni apparizione, ha alimentato l’immaginario dei pessimisti e dei profeti di sventura. Nel 1066 fu ricamata nell’arazzo di Bayeux come segno divino di sconvolgimenti destinati a cambiare per sempre la storia d’Inghilterra; nel 1456 papa Callisto III ordinò preghiere speciali contro la sua presunta minaccia durante l’assedio ottomano di Belgrado; nel 1910 il panico si diffuse in Europa quando i giornali sostennero che la sua coda avrebbe avvelenato l’aria. Eppure, ogni volta, la cometa è svanita silenziosa, senza che si realizzasse l’attesa catastrofe.

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L’ansia generata dalla sua apparizione richiama, in qualche modo, l’apprensione con cui negli ultimi anni gli investitori osservano i mercati azionari americani. L’attenzione di analisti e operatori resta puntata sugli Stati Uniti per capire se e quando rallenterà la dinamica di crescita che, salvo qualche inciampo, traina i mercati globali ormai da diversi anni. Valutazioni elevate, debito, dazi, politica, bolle tecnologiche: tutti questi fattori sono continuamente messi sotto esame. Eppure, come la cometa di Halley, i mercati statunitensi hanno più volte smentito le previsioni, continuando a seguire la propria orbita e trascinando con sé la crescita azionaria mondiale.

Naturalmente, i mercati non obbediscono alle leggi eterne che regolano il moto degli astri, ma restano per loro natura ciclici. Una valutazione attenta dei fattori di rischio è dunque sempre necessaria. Anche nel 2025, nonostante un anno di crescita, i dubbi sugli asset statunitensi sono rimasti al centro del dibattito con l’annuncio di nuovi dazi da parte del presidente americano Donald Trump e la preoccupazione per un’espansione trainata da pochi grandi titoli e in gran parte legata agli investimenti nell’Intelligenza Artificiale (IA). 

Nella prima metà dell’anno, il dollaro aveva toccato i minimi degli ultimi tre anni e l’azionario Usa aveva sotto-performato le controparti internazionali, prima del rimbalzo che ne ha riportato in alto le valutazioni. Tuttavia, pur con rischi all’orizzonte e al netto dell’impossibilità di prevedere con certezza la performance dei mercati, le prospettive dell’azionario americano oggi appaiono migliori rispetto a qualche mese fa. In questo articolo proveremo a spiegarne i motivi.

Lo shock dei dazi e la reazione dei mercati

Partiamo dai dazi, che avevano generato volatilità nella prima parte dell’anno e incertezza sull’evoluzione della politica commerciale Usa. Ciò rappresenta un freno per le performance azionarie: le imprese subiscono ripercussioni a breve termine sulle catene del valore, aumentando la percezione di rischio.

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Già durante il primo mandato di Trump, con le tensioni tra Stati Uniti e Cina, i mercati avevano sofferto, ma solo temporaneamente. L’indice S&P 500, ad esempio, perse circa il 4,4% nel 2018 in piena turbolenza, per poi balzare di oltre il 31% nel 2019 dopo l’accordo commerciale. In altre parole, le perdite causate dai dazi sono state rapidamente assorbite, suggerendo che gli investitori le abbiano interpretate più come shock congiunturali che come veri cambi di scenario.

Le circostanze attuali presentano alcune differenze. I mercati, pur consapevoli della strategia volontariamente ondivaga della Casa Bianca, hanno inizialmente percepito un cambiamento più strutturale. Tuttavia, la dinamica che sta guidando i listini non appare molto diversa dal passato, con i mercati che hanno rintracciato ancora più velocemente che nel 2018, nonostante il quadro sia oggi in qualche modo meno chiaro. Questo non significa che un inasprimento della politica commerciale non abbia conseguenze: da un punto di vista macroeconomico, i dazi agiscono di fatto come una tassa per consumatori e imprese. Ma l’esperienza recente mostra che, ai livelli proposti, le barriere commerciali non hanno alterato il percorso di fondo dei mercati.

Va anche sottolineato che i dazi sono spesso mirati a settori strategici, con l’obiettivo di rafforzare l’autosufficienza e incentivare la produzione domestica di beni chiave. Sebbene la portata di nuove misure resti incerta, è previsto un focus persistente sull’aumento della produzione interna negli Stati Uniti. Fenomeni simili di onshoring potrebbero emergere anche in altre aree del mondo, mitigando gli effetti più strutturali delle politiche protezionistiche.

Naturalmente, il processo genera complessità e volatilità, e nuove tornate di dazi potrebbero continuare a pesare anche nei prossimi mesi. Le aziende hanno bisogno di tempo per riorganizzarsi e le ricadute di lungo periodo restano da valutare. Ma gli investitori sembrano aver imparato a reagire agli annunci con maggiore cautela, guardando più ai dati concreti dell’economia che alla retorica politica. Inoltre, un approccio diversificato continua a essere uno strumento utile per attenuare i rischi specifici di settori o regioni e per limitare gli effetti più duraturi di una politica commerciale più restrittiva.

Rischio concentrazione?

Un altro tema che ha tenuto banco nel 2025 è l’eccessiva concentrazione dei listini americani. Dopo un inizio d’anno difficile, i titoli tecnologici e growth (società in forte crescita di ricavi e utili con valutazioni elevate) hanno ripreso le redini del mercato. Il settore tech è stato il migliore dell’S&P 500 nel secondo trimestre, mentre i Magnifici Sette (Apple, Microsoft, Alphabet, Amazon, Meta, Nvidia e Tesla) hanno messo a segno un forte recupero dai minimi di aprile.

Questo andamento ha sostenuto i mercati, ma ha anche riacceso timori, non certo nuovi, che il rimbalzo sia trainato da un numero troppo limitato di società e magari dall’eccessivo entusiasmo verso la rivoluzione dell’IA, sollevando dubbi sulla solidità del rialzo al di sotto della superficie. Questi timori sono comprensibili: quando la concentrazione è eccessiva, soprattutto intorno ad aziende dello stesso settore, le aspettative degli investitori rischiano di risultare distorte. Inoltre cresce il rischio che un calo marcato di una o più “mega-cap”, cioè aziende con una capitalizzazione di mercato elevata, dovuto a fattori specifici (regolamentazione, concorrenza, crisi aziendali), possa ripercuotersi sull’intero indice.

Paradossalmente, però, questa vulnerabilità è anche la dimostrazione della forza e della resilienza del sistema innovativo statunitense, ed è una delle ragioni per cui riteniamo che i listini Usa continuino a sorprendere. Questi grandi gruppi hanno la scala e la capacità per dominare in campi come IA, cloud, e-commerce e social media, settori caratterizzati da effetti di rete e dinamiche in cui pochi attori conquistano la maggior parte del mercato. Generano enormi flussi di cassa e vantano bilanci solidi, che li rendono più difensivi nelle fasi di rallentamento economico. Tutto ciò rafforza l’idea che multipli P/E elevati, ovvero l’indicatore che mette in relazione il prezzo di un’azione con i suoi utili, possano essere almeno in parte giustificati da solidi fondamentali.

Le grandi aziende tecnologiche si comportano sempre più come conglomerati, con decine di linee di business spesso costruite attraverso acquisizioni. Si stima che i Magnifici Sette abbiano rilevato oltre 800 società, ampliando la loro presenza in una vasta gamma di settori. Di fatto, è difficile trovare una famiglia o un’impresa che non utilizzi quotidianamente più di un prodotto o servizio riconducibile a questi gruppi. Colpisce, inoltre, come nell’ultimo anno la spesa aziendale in tecnologie legate all’Intelligenza Artificiale sia diventata il principale motore della crescita.

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Secondo alcune analisi, gli investimenti in apparecchiature e software per l’elaborazione delle informazioni – usati come indicatore degli investimenti delle aziende in Intelligenza Artificiale – hanno contribuito più dei consumi all’aumento del Pil nel 2023–2024, nonostante la domanda delle famiglie resti storicamente la colonna portante dell’economia americana.

Questi investimenti iniziano ad avere effetti diretti anche sui dati macroeconomici. Il Bureau of Economic Analysis (BEA) ha rivisto al rialzo la crescita del Pil del secondo trimestre 2025 dal 3,0% al 3,3%, grazie soprattutto alla spesa per proprietà intellettuale, macchinari e immobili fortemente legata al boom dell’IA. È la dimostrazione che questa tecnologia sta sostenendo in modo sempre più tangibile sia gli utili aziendali sia la crescita complessiva, contribuendo a rendere più sostenibili le valutazioni elevate dei colossi tecnologici.

Fino a quando l’azionario Usa può considerarsi costoso? 

Ma non è solo l’ottimismo legato al futuro dell’IA a supportare la prospettiva ottimistica intorno al mercato statunitense. Nel secondo trimestre, i risultati sono stati solidi per le società Usa: l’81% circa ha registrato dati superiori alle attese sugli utili per azione (EPS), e il 69% sul fronte dei ricavi, al di sopra delle medie storiche. Seppur questa crescita degli utili sia guidata in parte da tagli ai costi e riduzione del personale, si tratta sicuramente di una buona notizia per gli investitori.

La crescita aggregata dei profitti su base annua è stata del’12,6%, contro le stime iniziali di circa il 5% registrate a fine giugno, segnalando un trimestre in cui i risultati hanno decisamente superato le attese. Per quanto riguarda i ricavi, la crescita è stata del 6,3%, in aumento rispetto alla previsione iniziale di circa il 4%.

I Magnifici Sette (Alphabet, Amazon, Apple, Meta, Microsoft, Nvidia, Tesla) hanno brillato in modo particolare: il 100% di esse ha battuto le previsioni sugli utili per azione (EPS) con una crescita media degli utili aggregati pari al 26,6%, più del doppio rispetto alla media dell’indice. A rassicurare sono soprattutto le prospettive sugli utili: dopo i risultati del secondo trimestre, le attese di crescita per le società statunitensi sono tornate a salire, ampliando il divario con l’Europa.

Proprio grazie alla maggiore crescita degli utili, le valutazioni relative delle azioni americane appaiono oggi meno “sopravvalutate” rispetto ai picchi del 2024, pur restando più costose delle controparti europee.

Sul fronte macro, la Federal Reserve ha deciso di tagliare i tassi d’interesse dello 0,25% (in linea con le aspettative generali), con l’obiettivo di sostenere il mercato del lavoro Usa che ha iniziato a mostrare segnali di debolezza. Al tempo stesso, la Fed ha anche rivisto al rialzo le stime di crescita per il 2025 all’1,6%, mentre per il 2026 la crescita dell’economia statunitense è stimata all’1,8%. L’economia americana, dunque, sembra muoversi verso una fase di normalizzazione.

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In definitiva, il mercato Usa resta supportato da utili solidi e prospettive favorevoli, in particolare nel settore tecnologico. Anche se le incertezze non mancano e nessuno può prevedere con assoluta sicurezza l’andamento dei mercati, i trend strutturali continuano a offrire fondamentali robusti alle aziende americane, confermando questa asset class e questa economia come pietra angolare dei portafogli globali.

Dunque, nonostante valutazioni alte e l’onnipresente spettro di shock politici o economici, le stelle dell’economia Usa continuano a brillare, senza essere offuscate dalla luce della cometa.

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