Corsiste non assunte dopo la formazione, società condannata a restituire quasi 100mila euro alla Regione


Vent’anni per stabilire che quei fondi europei per la formazione professionale non erano dovuti. Si è chiusa in Cassazione una vicenda giudiziaria tra una società di formazione e la Regione Umbria, nata da un progetto finanziato dall’Unione Europea per l’occupazione femminile. La Corte di Cassazione, ha respinto il ricorso presentato dalla società, difesa dagli avvocati Simone Manna e Francesco Vannicelli, confermando le sentenze di merito che la obbligano a restituire oltre 98.000 euro di contributi pubblici.

Prestito condominio

per lavori di ristrutturazione

 

La storia ha inizio nei primi anni 2000, quando la Regione Umbria stanziò fondi europei per progetti integrati a favore dell’occupazione femminile. Un’Associazione temporanea di scopo, presentò il progetto “Donne per l’arte”, finalizzato alla formazione e all’accompagnamento al lavoro di promoter editoriali nel settore dei beni culturali.

Dopo l’approvazione del progetto e la stipula di una convenzione nel 2003, la Regione erogò due acconti per un totale di 67.600 euro. Tuttavia, a corso formativo concluso, emersero gravi inadempienze. Secondo quanto accertato in sede processuale, le imprese dell’Ats non avrebbero rispettato l’obbligo di mantenere in servizio per almeno 24 mesi le cinque allieve assunte, violando anche il divieto di cumulo di altri benefici.

La Regione Umbria, pertanto, si rifiutò di liquidare il saldo e, anzi, promosse un’azione giudiziaria chiedendo la restituzione dell’intera somma già versata, compresi i contributi per l’assunzione, per un totale di 98.050 euro.

In primo grado, il Tribunale di Perugia aveva dato ragione all’ente, revocando un precedente decreto ingiuntivo ottenuto dalla società capofila e accolto anche la domanda riconvenzionale di restituzione. Una sentenza poi confermata nel 2019 dalla Corte d’appello di Perugia, che respinse l’appello della società.

Richiedi prestito online

Procedura celere

 

La società aveva fatto ricorso in Cassazione, basandosi su tre motivi principali sulla presenza di un difetto di legittimazione passiva e sulla mancata integrazione del contraddittorio con le altre imprese dell’Ats, oltre all’errata valutazione delle prove da parte dei giudici di merito; e una pretesa errata interpretazione del bando di gara e delle obbligazioni a carico della capofila.

I giudici della Suprema Corte hanno respinto tutte le censure ritenendo che la società, in qualità di capofila mandataria munita di procura, era l’unico soggetto legittimato a rispondere verso la Regione per gli inadempimenti dell’intera associazione, escludendo la necessità di coinvolgere in giudizio le altre imprese.

Il secondo motivo è stato giudicato inammissibile, in quanto la valutazione delle prove (tra cui le ammissioni di inadempimento di due delle imprese consorziate e la restituzione parziale di 4.000 euro) ricade nel libero apprezzamento del giudice di merito, insindacabile in Cassazione se non per profili di legittimità.

Infine, anche il terzo motivo è stato dichiarato inammissibile. La ricorrente non ha infatti specificato quali clausole contrattuali avrebbero escluso le sue responsabilità, mentre la Corte d’Appello aveva chiarito che la società si era assunta la piena responsabilità per l’adempimento di tutti gli obblighi previsti dal bando, compreso il mantenimento dei posti di lavoro.

 



Source link

***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****

Dilazione debiti

Saldo e stralcio

 

Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link

Source link

Sconto crediti fiscali

Finanziamenti e contributi