Bioeconomia: una forza silenziosa di transizione


C’è un pezzo dell’economia italiana che cresce silenziosamente, creando valore, occupazione e innovazione, ma continua a sfuggire ai radar della politica industriale. È la bioeconomia, un settore che non si riduce a etichette Green o alla retorica della sostenibilità, ma che rappresenta una componente strutturale dell’economia reale. Si parla di attività produttive che utilizzano risorse biologiche rinnovabili per generare beni e servizi: dall’agroalimentare alla chimica verde, dalla moda al packaging bio-based. Tutto ciò che nasce da filiere naturali e si rigenera nel ciclo produttivo. È un paradigma diverso, concreto, che si muove all’incrocio tra economia circolare, transizione ecologica e rilancio delle aree marginali.

Nel 2024 la bioeconomia italiana ha generato oltre 426 miliardi di euro di valore, pari a circa il 14% del settore nell’intera Unione Europea (Fonte: Intesa San Paolo Group). È un dato che parla chiaro: l’Italia non è affacciata alla finestra, ma è già tra i protagonisti del settore. Eppure, questo motore economico resta ancora privo di una regia. Manca un piano nazionale organico, mancano incentivi mirati e politiche industriali capaci di sostenere davvero le imprese che innovano nel rispetto delle risorse naturali.

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Cos’è e chi coinvolge

La bioeconomia è un settore produttivo trasversale che comprende tutte le attività fondate sull’uso sostenibile di risorse biologiche, rinnovabili e rigenerabili. È il comparto in cui agricoltura, silvicoltura, pesca, alimentare, bioenergia, bioplastiche, cosmetica e biochimica convergono, generando beni e servizi a basso impatto ambientale. La definizione ufficiale adottata dalla Commissione Europea nel 2018 la identifica come “l’economia che utilizza risorse biologiche rinnovabili per produrre cibo, materiali ed energia”.

È una filiera che non si esaurisce nei campi o nei laboratori, ma coinvolge manifattura, logistica, ricerca applicata e trasformazione industriale. Per l’Italia, significa poter contare su un ecosistema produttivo già esistente, radicato nei territori, ma bisognoso di supporto. Il valore della bioeconomia non risiede soltanto nei numeri, ma nella sua capacità di rispondere simultaneamente a tre esigenze: ridurre la dipendenza dai combustibili fossili, rigenerare risorse naturali e rilanciare le economie locali. Una sintesi rara tra sostenibilità e competitività.

Nel 2023, il comparto ha generato oltre 2.400 miliardi di euro di output economico nell’UE, occupando circa 17,5 milioni di persone (Fonte: JRC Bioeconomy Report della Commissione Europea). Agli ultimi dati disponibili, il valore complessivo in Europa ha superato nel 2024 la soglia dei 3.042 miliardi di euro, pari all’8,7% del PIL dell’Unione. Numeri che bastano da soli a smentire chi continua a considerarla un comparto secondario (Fonte: Rapporto Intesa Sanpaolo 2025).

Ma l’aspetto più strategico è che la bioeconomia non si limita a ridurre le emissioni. Crea occupazione stabile, distribuita in maniera capillare, e favorisce l’innovazione industriale in settori spesso sottovalutati. Uno studio congiunto FAO–OCSE del 2022 ha definito la bioeconomia come una «leva centrale per la trasformazione sostenibile dei sistemi alimentari e industriali». È qui che si gioca una parte decisiva della transizione economica europea.

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Eppure, se in Germania e Francia esistono già strategie bioeconomiche consolidate, coordinate con gli obiettivi industriali nazionali, l’Italia continua a muoversi in ordine sparso. Lo stesso Rapporto Intesa Sanpaolo 2025 lo sottolinea con chiarezza: manca una politica industriale unitaria in grado di accompagnare la trasformazione delle imprese, finanziare la ricerca e rendere scalabili le soluzioni bio-based.

Ruolo da protagonista

Grazie ai suoi 426,8 miliardi di euro di output della bioeconomia, il nostro Paese si colloca al terzo posto nell’Unione Europea per valore assoluto dopo Germania (che supera i 560 miliardi) e Francia (intorno ai 445 miliardi). Ma se si guarda alla quota relativa, l’Italia contribuisce da sola a circa il 14% dell’intera bioeconomia europea, superando il suo peso economico complessivo, che si ferma al 12,4% del PIL UE. Un segnale inequivocabile di forza competitiva e specializzazione.

L’occupazione associata al settore si attesta intorno al 7,7% del totale nazionale, con milioni di posti di lavoro distribuiti lungo la filiera agroalimentare, nella chimica verde, nella moda bio-based e nella produzione energetica da biomasse. Il settore alimentare da solo vale oltre la metà del totale, ma crescono anche cosmetica e packaging sostenibile, con quote ancora contenute ma a forte dinamica innovativa. Il report sottolinea come, nel solo comparto del packaging bio-based, quasi la metà delle imprese italiane intervistate utilizzi già materiali di origine biologica e il 68% di quelle con uso marginale abbia intenzione di aumentarlo nei prossimi anni.

Nonostante questi numeri, l’Italia continua a mancare di un coordinamento strategico. A differenza della Germania, che ha lanciato la sua prima Strategia nazionale per la bioeconomia già nel 2010 e l’ha aggiornata nel 2020 con un piano pluriennale d’investimenti, e della Francia, che integra la bioeconomia nelle proprie politiche industriali e agricole, l’Italia si muove ancora su base frammentaria. Le politiche di sostegno sono per lo più settoriali, con interventi limitati a bandi regionali o a misure trasversali come il PNRR, senza un disegno complessivo.

Il termine bioeconomia resta assente dal dibattito pubblico e dalle priorità di policy, nonostante il valore economico del settore sia quasi il doppio di quello dell’intera industria automobilistica nazionale. Nessuno lo direbbe, eppure i dati sono lì a dimostrarlo. A rendere ancora più evidente questo scollamento è la situazione delle cosiddette aree interne, che rappresentano oltre il 60% del territorio italiano e custodiscono gran parte del potenziale bioeconomico nazionale. Parliamo di zone ricche di biodiversità, foreste, colture tipiche, allevamenti, saperi locali, tutte risorse naturali e culturali che potrebbero alimentare filiere ad alto valore aggiunto.

Eppure, la mancanza di infrastrutture, servizi e capitale frena lo sviluppo di queste zone. Le analisi evidenziano che qui potrebbe concentrarsi una parte significativa della nuova occupazione bio-based, a patto di attivare investimenti e percorsi formativi adeguati. A livello produttivo, la bioeconomia italiana eccelle in qualità più che in quantità. Mentre i paesi nordici dominano nelle filiere della cellulosa e della carta, e la Germania nella chimica industriale, l’Italia si distingue per l’integrazione tra manifattura, agricoltura e design sostenibile: dalla moda circolare alla cosmesi vegetale, dal vino alla bioedilizia. Un vantaggio competitivo culturale e industriale, che però resta inespresso se non viene accompagnato da una politica nazionale che ne riconosca il valore sistemico

Non si può restare

Non basta partecipare per avere un ruolo. La bioeconomia italiana è una realtà economica già strutturata, ma non esiste ancora una politica nazionale in grado di riconoscerla come leva strategica. Questo è il nodo principale. Non mancano le imprese, le filiere, le competenze. Manca il quadro politico che le faccia funzionare insieme.

Chi oggi produce, innova o investe in bioeconomia in Italia lo fa in un contesto disorganico. Le iniziative ci sono, ma restano isolate. Le imprese sperimentano, i territori si muovono, ma senza una cornice unitaria le buone pratiche non si trasformano in sistema. La capacità di generare valore c’è, ma è ostacolata da una condizione paradossale: la bioeconomia è forte nei fatti, ma invisibile nelle politiche.  Alcuni esempi? Non esiste un codice identificativo delle attività bio-based. Le linee di finanziamento dedicate non esistono. Non ci sono strumenti pensati per accompagnare la crescita di queste filiere, se non attraverso misure frammentarie, spesso regionali, che non rispondono a una visione industriale. L’assenza di una strategia di ampio raggio rende tutto più lento, più fragile, più incerto.

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La bioeconomia continua a essere trattata come un settore emergente, quando in realtà ha già dimensioni economiche superiori a molte filiere considerate strategiche. Non è un’aggiunta alla transizione ecologica, è una delle sue colonne portanti. Eppure, non entra nei dibattiti pubblici, non viene citata nei grandi piani industriali, non riceve l’attenzione che merita nei documenti programmatici.

Ma il contesto europeo offre una finestra di opportunità. Nei prossimi mesi la Commissione Europea aggiornerà la strategia per la bioeconomia, introducendo strumenti normativi, standard comuni e nuovi criteri di finanziamento. È un’occasione che l’Italia non può perdere. Per coglierla, servono decisioni politiche chiare, strutturate, ambiziose. Bisogna costruire una regia nazionale, mettere in rete imprese, ricerca, territori e istituzioni. La bioeconomia non è una visione astratta. È già qui, produce, assume, innova. Chiudere gli occhi di fronte a questo fatto significa lasciare che siano altri a guidare un cambiamento che, per una volta, potrebbe partire da noi. ©

📸 Credits: Canva  

Articolo tratto dal numero del 15 settembre de il Bollettino. Abbonati!





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