Il ministro suona l’allarme: se non si interviene ora, tra cinque anni manifattura europea in ginocchi.
(Foto: il ministro Giovanni Giorgetti con la presidente del Consiglio Giorgia Meloni).
L’Italia — e più in generale l’Europa — è davanti a un bivio che può ridisegnare il suo sistema produttivo. Per il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti il rischio che la manifattura europea scivoli verso un “deserto industriale” nel giro di cinque anni è concreto, e la pressione maggiore non arriva da oltreoceano ma dall’Asia. L’analisi non si esaurisce in un allarme: politiche commerciali, produttività, energia e regole multilaterali sono variabili decisive.
Il monito di Giorgetti: cosa ha detto
Ad Aosta, oggi 13 settembre 2025, Giorgetti ha scandito l’urgenza del tema. In pubblico ha affermato: “Il tema della delocalizzazione è il problema serio del futuro dell’Europa”, avvertendo che senza decisioni a tutela della base produttiva il continente rischia di invecchiare e impoverirsi. E ha aggiunto: “O l’Europa prende coscienza e comincia a prendere decisioni a difesa della propria economia, oppure diventeremo un continente di vecchi”. — Giancarlo Giorgetti, Aosta, 13 settembre 2025
Nella sua lettura, il pericolo competitivo più immediato proviene dall’Asia: Europa e Italia importano molto, mentre la domanda per i beni europei in quella regione mostra segnali di debolezza. Al contrario, l’export italiano verso gli Stati Uniti si è mosso in controtendenza nella prima metà dell’anno, a conferma della tenuta dei prodotti di qualità.
I numeri dietro l’allarme
La fotografia industriale europea evidenzia uno scarto crescente fra sovraccapacità asiatica e capacità di risposta dell’industria Ue. In più settori — dall’automotive all’elettromeccanica, fino alle tecnologie verdi — l’offerta extraeuropea spinge i prezzi al ribasso, comprimendo i margini delle imprese continentali e alimentando incentivi alla delocalizzazione. A ciò si sommano le sensibilità su tassi e cambio, che incidono sul costo dei fattori e sulla competitività di prezzo dei prodotti europei sui mercati terzi.
Le variabili che contano davvero
Delocalizzazione e catene del valore: i differenziali di costo del lavoro, di compliance ambientale e fiscale restano potenti. La tecnologia consente supply chain globali “a fisarmonica”, facilitando lo spostamento delle produzioni più standardizzate.
Competizione asiatica: la Cina e altri paesi dell’area combinano scala produttiva, politiche di sostegno e strategie export-oriented. L’eccesso di offerta in alcuni comparti — soprattutto beni intermedi e green tech — si riverbera sui prezzi europei.
Dazi e incertezza: pur non essendo la minaccia principale, le politiche tariffarie extraeuropee alimentano volatilità nelle scelte di investimento delle imprese, imponendo scenari multipli e premiando gli ecosistemi più stabili e rapidi nelle autorizzazioni.
Produttività e costi interni: il vero tallone d’Achille europeo resta l’insufficiente crescita della produttività, insieme a energia, burocrazia e tempi decisionali. Senza cura di queste leve, qualsiasi “difesa” commerciale rischia di essere un palliativo.
Le obiezioni: dove la tesi scricchiola
C’è chi considera eccessivo l’orizzonte dei cinque anni per un collasso della manifattura: si osservano segnali di reshoring, specializzazione di fascia alta e riconfigurazione delle catene di fornitura verso paesi amici. Altri economisti insistono che la priorità non è un grande scudo protezionista, ma riforme pro-competitività su energia, capitale umano, fisco e semplificazioni.
Cosa può fare l’Europa adesso
Difesa industriale mirata, non autarchia: incentivi agli investimenti produttivi e alla tecnologia, tutela dei distretti strategici, riqualificazione dei lavoratori nelle filiere a rischio.
Regole multilaterali più eque: introdurre clausole di contenuto locale e criteri di reciprocità negli appalti finanziati da organismi internazionali, per evitare squilibri sistemici a danno delle imprese europee.
Commercio più bilanciato: diversificare fornitori critici, rafforzare l’autonomia strategica aperta, costruire catene regionali resilienti nei beni ad alto valore aggiunto.
Coordinamento su energia e fisco: ridurre il costo dell’energia, accelerare le infrastrutture e armonizzare gli incentivi per rendere meno conveniente la delocalizzazione motivata solo da gap regolatori e fiscali.
Il punto
Il messaggio è netto: servono scelte rapide e coerenti. Limitarsi a contestare la concorrenza altrui non basta: l’Europa deve reagire con politiche industriali intelligenti, riforme che liberino produttività e un uso chirurgico degli strumenti commerciali. Senza questa torsione, il rischio evocato da Giorgetti non è retorica: una parte consistente della base manifatturiera potrebbe davvero assottigliarsi, con effetti durevoli su salari, investimenti e coesione sociale.
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