«Il Data Act rappresenta una grande opportunità per il sistema industriale italiano, perché apre la possibilità di accedere e condividere dati in modo più semplice e sicuro», ci racconta Alessandro De Biasio, amministratore delegato di Cefriel. La normativa europea, infatti, apre scenari nuovi: l’accesso ai dati e la possibilità di condividerli tra aziende e filiere possono generare efficienza, innovazione e competitività. Ed è proprio la gestione del dato – insieme al tema della sua interoperabilità, cioè la capacità dei sistemi di dialogare tra loro in modo semplice e sicuro – il cuore di questa approfondita intervista che De Biasio ha concesso a Industria Italiana.
Nato nel 1988 su iniziativa congiunta del Politecnico di Milano, dell’Università degli Studi di Milano e dell’Università di Milano-Bicocca, insieme a Comune di Milano e Regione Lombardia, Cefriel sviluppa innovazioni che le aziende applicano nei propri processi, generando brevetti e soluzioni che trovano applicazione concreta.
Presieduta da Stefano Venturi, già numero uno di Hpe Italia, è una realtà consortile senza scopo di lucro che reinveste ogni utile nello sviluppo di competenze e nella sperimentazione di nuove tecnologie. Oggi opera come centro di consulenza e conta tra i soci nomi come Engineering, Hpe, Eni, Exprivia, Microsoft, Pirelli, Sas e STMicroelectronics.
«Il dato è il cuore della competitività – spiega De Biasio, che arriva dal mondo della consulenza con un’esperienza maturata anche in Ambrosetti (oggi The European House – Ambrosetti) – e tutti, dagli ingegneri ai manager, devono imparare a ragionare come dei data scientist. Significa saper leggere, analizzare e usare le informazioni in ogni fase del processo, dalla progettazione alla produzione».
Le aree di ricerca di Cefriel spaziano dalla mobilità intelligente alla cybersecurity, dall’Industry 4.0 con supply chain connesse, smart factory e interoperabilità dei dati, fino a analytics e intelligenza artificiale, digital ecosystems, design di prodotto ed esperienza utente, architetture software e soluzioni digitali, innovazione sostenibile e responsabile e innovation management. Oggi le attività si concentrano su quattro aree chiave: gestione dei dati e IA, ecosistemi digitali, smart industry e cybersecurity, integrate con una forte attività di formazione, erogata direttamente a imprese e manager per diffondere competenze digitali e operative. Particolare attenzione è dedicata al settore machinery, uno dei motori dell’economia italiana. «L’obiettivo – precisa De Biasio – è integrare strumenti che non solo raccolgono dati e parametri, ma li rendono immediatamente interpretabili e utilizzabili, così da aumentare produttività, qualità e flessibilità dei processi industriali».
L’amministratore delegato racconta a Industria Italiana i progetti più avanzati, i ritardi culturali che frenano la manifattura e il perché, senza una chiara strategia sui dati, il rischio per le imprese italiane è quello di restare ai margini delle filiere globali.
D: Dottor De Biasio, quali sono le ultime innovazioni che avete sviluppato nell’ambito degli ecosistemi digitali, uno dei vostri maggiori ambiti di attività?
R: Tra le più interessanti c’è il progetto Cargo Malpensa, un ecosistema orientato ai servizi. Lì abbiamo integrato sistemi e dati in un’unica piattaforma, aumentando la capacità di gestione delle merci e la velocità delle operazioni. Ma il progetto più noto è E015, nato per gestire i flussi di mobilità durante Expo e oggi piattaforma che connette oltre 700 soggetti, con uno scambio continuo di dati sul territorio.
D: E progetti relativi ai prodotti intelligenti?
R: Nel 2022 abbiamo vinto il Compasso d’Oro insieme a un nostro cliente che voleva lanciare sul mercato americano un dispositivo innovativo per la pesatura del sangue delle donazioni. Serviva un design brillante, tecnologia connessa e un business model efficace. Siamo riusciti a mettere insieme tutte queste componenti. Abbiamo all’attivo diversi progetti, a partire dalla collaborazione con Dainese per la tuta con airbag, che ha aperto una strada poi percorsa con successo da altri produttori in altri contesti.
D: Ci racconta alcuni filoni di ricerca su cui vi state focalizzando maggiormente?
R: I filoni principali sono tre. Il primo è l’interoperabilità dei dati, soprattutto nella mobilità, con ricadute però in ogni ambito nel quale vi sia l’esigenza di scambiare dati: il dato è ormai è la vera fonte di vantaggio competitivo e va gestito e condiviso in modo strategico, con il supporto dei data scientist. Il secondo è il contesto delle industrial solutions, con l’adozione di digital twin per simulazioni e analisi predittive di impianti e macchinari. Infine, la cybersecurity, resa più complessa dall’IA: lavoriamo su modelli che aiutano le aziende a gestire tecnologie e rischi, bilanciando ruoli, responsabilità e asset.
D: In che modo concretamente affrontate il tema della cybersecurity nelle aziende?
R: Facciamo attività classiche, come test di phishing o penetration test, ma il nostro punto di forza è un altro: analizzare le vulnerabilità umane. Guardiamo come la struttura organizzativa di un’azienda, i ruoli e il livello di consapevolezza delle persone possano generare rischi.
D: Questo approccio avrà un ruolo sempre più importante con l’IA?
R: Assolutamente. La frontiera dei prossimi anni sarà la collaborazione sempre più spinta tra persona, macchina e uomo digitale. L’intelligenza artificiale ci porta lì, ma serve consapevolezza: bisogna sfruttare le tecnologie in modo intelligente, conoscendone i benefici ma anche i rischi. Il grande tema è mantenere il controllo umano sulla tecnologia, evitando illusioni o usi acritici.
D: Quanto conta l’intelligenza artificiale nei vostri progetti?
R: L’IA è centrale, ma sempre con un approccio concreto. Prima aiutiamo le aziende a definire una strategia dei dati – capire quali hanno, come gestirli e valorizzarli – e solo dopo introduciamo l’IA, per garantirne un’adozione efficace e sostenibile.
D: Dunque, il tema dei dati è centrale in questo processo?
R. Assolutamente sì. Pensiamo al Data Act, il regolamento UE che disciplina l’accesso, l’uso e la condivisione dei dati generati da dispositivi connessi e servizi digitali e che stabilisce regole chiare su proprietà, portabilità e condivisione dei dati tra aziende, cittadini e pubbliche amministrazioni. Il Data Act apre un mercato di dati su cui costruire nuovi modelli. Parliamo di servitization da vent’anni, ma oggi non c’è prodotto che non abbia un contenuto di servizio. E il digitale permette di lavorare in profondità su questo, con spazi di manovra enormi.
D: Dunque il Data Act può essere un’opportunità?
R: Sì, ma serve maggiore consapevolezza. Stiamo lavorando per diffondere conoscenza e alcune delle nostre persone hanno contribuito alla pubblicazione di un libro sul tema. Il Data Act è un’opportunità, ma senza preparazione rischia di diventare un problema. In generale, l’Italia deve accelerare sul digitale per non restare indietro.
D: Perché siamo più indietro rispetto ad altri Paesi?
R: La Germania, pur in crisi, investe molto in innovazione grazie ai suoi grandi campioni nazionali. Noi non possiamo perdere il treno della collaborazione con loro: i dati sono cruciali perché competiamo e collaboriamo sugli stessi fronti, all’interno di filiere globali integrate.
D: Perché i dati sono così centrali?
R: Il vantaggio competitivo nasce dai dati: servono per migliorare i prodotti, ottimizzare i processi e rafforzare la customer intimacy. Non solo i dati aziendali, che sono generalmente ben sfruttati, che però possono essere arricchiti e scambiati secondo logiche di cooperazione, anche con concorrenti secondo quella che in gergo da tempo si definisce coopetition. Oggi entrano in tutti i settori, e chi non li adotta rischia di restare indietro.
D: Ma l’Italia parte da una posizione diversa rispetto ad altri Paesi, giusto?
R: Sì. Abbiamo poche grandi imprese e molte Pmi, spesso internazionalizzate ma con risorse limitate. Digitalizzare richiede tempo, competenze e riorganizzazione. La nostra flessibilità, però, è un vantaggio. Ma serve uno sforzo di sistema, con politiche industriali chiare e investimenti mirati. I Competence Center hanno funzionato, ma ora serve uno step successivo con una visione di lungo periodo.
D: Il modello Fraunhofer è ancora un punto di riferimento?
R: Assolutamente sì. Più volte abbiamo detto che vorremmo essere un piccolo Fraunhofer italiano. Ma scontiamo sotto questo profilo un ritardo di anni rispetto alla Germania. Non basta avere un istituto nazionale: in regioni come Lombardia, Veneto o Emilia-Romagna, ne servirebbe uno per provincia, perché la domanda di innovazione è enorme e distribuita.
D: Per un imprenditore, qual è il modo corretto per affrontare l’innovazione digitale?
R: Bisogna partire dal modello di business e chiedersi quali processi, competenze e organizzazioni rivoluzionare col digitale. Solo dopo si sceglie la tecnologia, evitando di saltare il passaggio strategico.
D: In che modo la crescente complessità tecnologica sta facendo aumentare i rischi per le imprese?
R: Ci sono nuove normative, come la Nis2, che aumentano le responsabilità degli imprenditori e degli amministratori. E c’è un tema reale di protezione degli asset aziendali. Quello che consiglio è di studiare, informarsi: c’è sempre un nuovo modello di IA, una nuova piattaforma, un nuovo rischio. Bisogna capire quali sono i dati e le informazioni che, nel proprio business, possono generare vantaggio competitivo.
D: Può fare un esempio concreto?
R: Per un’azienda che progetta piattaforme petrolifere, abbiamo usato l’IA per raccogliere e rielaborare il know-how dei progetti passati, trasformando competenze individuali in un patrimonio condiviso e accessibile a tutti i progettisti. Creando di fatto un asset capace di sostenere la competitività di medio e lungo termine.
D: Altri casi in cui il dato ha cambiato i processi?
R: Un cliente del settore viti ci ha chiesto di sviluppare un modello di IA per mappare il know-how dei tecnici e renderlo patrimonio comune. Un altro, nel movimento terra, ha inserito sensori sugli escavatori: dati su utilizzo e usura hanno permesso di passare dalla vendita al noleggio a tariffe dinamiche e di rendere più trasparente il mercato dell’usato.
D: E sul fronte della manutenzione predittiva?
R: È un altro ambito chiave. Un’azienda con squadre di manutenzione in giro per il mondo ci ha chiesto di ottimizzare i processi: raccogliendo i dati in tempo reale, siamo riusciti a prevedere con precisione i momenti in cui un pezzo andava sostituito, ottimizzando le procedure di intervento. Questo ha permesso operazioni mirate e più efficienti, evitando fermi macchina e riducendo i costi.
D: Non è tecnologia troppo complessa per le Pmi?
R: Assolutamente no. Parliamo di tecnologie consolidate, come IoT e digital twin, affidabili e accessibili. La sfida non è tecnica: è culturale. Serve consapevolezza del loro valore e la capacità di inserirle nei modelli di business.
D: Quali sono, secondo lei, le priorità della manifattura italiana per restare competitiva?
R: La manifattura italiana soffre di un problema di dimensioni: così com’è, fatica a competere a livello globale. Il Pnrr ha aiutato a spingere progetti di innovazione, ma per salvare il nostro patrimonio industriale serve investire davvero nel digitale, che unisce flessibilità, efficienza, progettazione migliore e servizi a valore aggiunto.
D: Il machinery è uno dei pochi settori industriali forti rimasti in Italia. Dal vostro osservatorio, come sta andando il comparto?
R: In questo momento stiamo lavorando per velocizzare le lavorazioni. Poi per semplificare la conduzione dei macchinari, così da non dipendere da personale altamente specializzato: grazie a tecnologie sempre più intuitive, anche operatori meno esperti possono lavorare in modo efficiente. Occorre saldare lo straordinario patrimonio di esperienza e tecnologie di cui le nostre aziende dispongono con l’innovazione digitale: solo questo garantirà la competitività della nostra industria.
D: E quali sono le principali innovazioni su cui state lavorando?
R: Stiamo lavorando su IA e computer vision per rilevare anomalie e difetti in tempo reale, riducendo scarti e inefficienze, e su modelli di machine learning per pianificazioni produttive più accurate. Così le macchine diventano più veloci, segnalano problemi subito e forniscono dati preziosi anche per migliorare il design.
D: E nel mondo dell’energia, su cosa state lavorando?
R: Abbiamo collaborazioni anche con il mondo delle utility e con alcuni grandi player dell’energia. Sono ambiti investiti dalla trasformazione digitale, che può aiutare a semplificare processi anche molto complessi.
D: Nel dibattito pubblico la tecnologia ha l’attenzione che merita?
R: Purtroppo no. E questo è un problema. Se guardiamo a tre, cinque o dieci anni, la tecnologia sarà l’unica leva in grado di permetterci di restare competitivi, se sapremo coglierne davvero le potenzialità. Mai come oggi servono visione strategica e capacità di indirizzo a livello di Unione Europea e sistema-paese.
D: Come si può definire oggi Cefriel?
R: Non siamo solo una società di consulenza: uniamo ricerca, innovazione e formazione in modo integrato, fornendo ai nostri clienti un metodo per affrontare i processi di innovazione e favorire la trasformazione digitale. Non solo esploriamo tecnologie che poi trasferiamo nei progetti, ma aiutiamo i nostri clienti a creare al loro interno le competenze che sono necessarie per gestire in autonomia i processi di evoluzione continua oggi necessari per stare al passo delle tecnologie. Ci aiuta moltissimo il fatto di essere radicati nell’ecosistema dell’innovazione, con forti legami con il Politecnico di Milano e collaborazioni con circa 30 enti e università, soprattutto su progetti europei.
D: E sul fronte dei clienti, che tipo di supporto offrite?
R: Il nostro supporto è focalizzato sull’innovazione: i clienti ci coinvolgono per problemi senza soluzioni pronte e noi uniamo competenze per risolverli. Sembriamo una società di consulenza, ma ci definiamo un centro di innovazione digitale.
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