“Modello Milano”. La città con l’economia più dinamica d’Italia porta con sé anche ombre pesanti, come i costi della vita particolarmente elevati. Eppure, se guardiamo i numeri, la differenza è evidente. I redditi medi sono più alti (così come i prezzi), e la produttività delle imprese milanesi surclassa quella di Torino, Bologna o Roma. La domanda vera è: perché?
Le ragioni sono tante – demografia, risorse, produttività – ma qui vale la pena concentrarsi su un motore preciso e spesso non considerato: l’innovazione. E per farlo, possiamo guardare a una particolare tipologia di aziende innovative: le startup.
Una nota di metodo: quando qui parliamo di “startup” ci riferiamo alle imprese innovative che hanno raccolto capitali da investitori professionali (fonte Dealroom, dati aggiornati al 2025). E per “Milano” intendiamo l’area metropolitana. Questo per tenere il confronto pulito.
I dati parlano chiaro: Milano conta 1.338 startup, cioè il 30 per cento del totale italiano. Roma per confronto ne ha 497, Torino 315. E quando si guarda alle startup di successo, il gap si allarga: il 43 per cento delle startup italiane fino a 25 milioni di fatturato è milanese, così come il 64 per cento di quelle fino a 100 milioni e più della metà degli unicorni del Paese. Roma? Nessun caso di rilievo.
Tre fattori, fra tutti, forse hanno fatto la differenza.
Il primo è il capitale di rischio, ossia i finanziamenti che vengono destinati a queste imprese particolarmente rischiose. In città operano 209 fondi di venture capital, ossia fondi specializzati nell’investimento in startup (oltre metà del totale nazionale), con 568 milioni di euro raccolti dalle startup locali, più della somma di Roma e Torino. La prossimità tra chi investe e chi innova, spiegano anche in Banca d’Italia, riduce le asimmetrie e facilita gli investimenti.
Il nodo vero, però, è più avanti nel tempo: Milano abbonda di capitali all’inizio della vita di una startup, ma si inceppa sui round di crescita. L’effetto è visibile: più investimenti guidati da fondi esteri, startup che migrano dove il capitale è più disponibile, e una parte dei profili senior che vanno all’estero per poter continuare le proprie carriere. Se vogliamo trattenere valore in loco, la partita si gioca qui.
Il secondo fattore è il legame con il sistema accademico. Milano conta ben cinque università e ha registrato negli ultimi dieci anni un +10 per cento di iscritti e un raddoppio degli studenti internazionali: tradotto, un afflusso continuo di talenti. Giovani talenti per l’offerta di lavoro delle startup locali, anche grazie a talento altamente qualificato in specialità tecniche. Milano conta inoltre 153 spin-out, ossia startup nate da un progetto di ricerca a un’iniziativa in seno all’università, il dato più alto d’Italia.
Il terzo è l’effetto network. Una massa critica di startup e operatori che genera interazioni, abbassa i costi e attira nuovi attori. Oggi a Milano si contano 51 acceleratori (un terzo d’Italia) e oltre mille service provider specializzati. Un ecosistema complesso e nutrito.
Le istituzioni hanno fatto la loro parte – Camera di Commercio, innovation hub – ma un’analisi della Banca d’Italia mostra che gli incentivi pubblici hanno inciso poco: la crescita è arrivata più da dinamiche organiche che da politiche centralizzate.
La confluenza di questi fattori ha portato la città a registrare una crescita nel numero di startup che riescono effettivamente a raccogliere capitale da investitori specializzati. E con la crescita del numero delle startup per un periodo prolungato di anni, si attiva poi un meccanismo ancora più potente: l’effetto volano. Funziona così: una startup cresce, viene venduta o “scala”, ossia continua a raccogliere capitale per continuare nel suo processo di crescita. I fondatori e i primi dipendenti, con soldi e competenze in tasca, possono poi fondare nuove imprese o investire in altre, spesso legate a conoscenze dirette maturate nell’ecosistema locale in cui si è cresciuti.
E questo è un fattore fondamentale, perché come riporta uno studio dell’Harvard Business School, le startup con “alumni founder” hanno un tasso di successo più alto. Milano ha 1.016 “alumni founder” che hanno già raccolto capitali, contro i 243 di Roma e i 220 di Torino. Il gap si evidenzia ancor di più guardando alle startup in fase di crescita più avanzata (oltre i 15milioni di fatturato, o oltre i 100). Non stupisce allora vedere cinque dei nove unicorni italiani proprio in città.
Il volano non è solo nuove società: è anche più angel “locali”, i primi clienti che arrivano grazie a reti personali, studi legali e fiscali verticali, e stipendi tech che alzano l’asticella. Milano funziona perché moltiplica i ponti, non perché li promette. Questo circolo virtuoso è il segreto che le altre città italiane stanno appena iniziando a intravedere, ma con ritardi evidenti.
Se guardiamo al futuro, il modello offre tre spunti chiari. Primo: valorizzare il talento, partendo dagli atenei. Secondo: semplificare la vita a chi fa impresa, con procedure standardizzate, servizi e operatori chiari e accessibili. Terzo: puntare sulla specializzazione, costruendo poli di eccellenza legati alle vocazioni industriali dei territori (aerospazio a Torino, meccatronica a Bologna, e così via).
Certo, anche Milano ha i suoi limiti: costi proibitivi e poca forza nei round di finanziamento avanzati. Allora si può vedere anche cosa non copiare: affitti fuori scala, scarsa offerta di housing intermedio, carenza di capitali late stage. Senza questi tre correttivi, il modello rischia di premiare pochi e di esportare troppo valore fuori confine.
Ma la lezione rimane: un ecosistema innovativo non nasce per caso, è frutto di un processo sistemico. E replicare queste dinamiche – adattandole ai contesti locali – può trasformare successi isolati in opportunità per tutto il Paese. Perché, almeno sul fronte startup, più Milano non sarebbe un male.
*Elia Bidut è fellow del think tank Tortuga, dove studia e analizza i temi dell’innovazione e produttività. Ha esperienze in varie startup e scaleup nazionali e internazionali.
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