Non c’è via d’uscita per Taranto. La città pagherà in ogni caso un prezzo altissimo. È in agonia il mostro che sputava lingue di fuoco, quello che fu il più grande impianto siderurgico d’Europa a ciclo integrale, diventato oggi in gran parte un ammasso di ferro arrugginito, di impianti che scricchiolano, obsoleti, di treni nastri e laminatoi immobili, di altiforni spenti, in disarmo, in manutenzione, pericolosi per i lavoratori e la popolazione, e una slot-machine che produce debiti su debiti.
Oggi giurano di volerlo rianimare, il mostro, di volergli garantire nuova vita cambiandogli il motore che, da tossico, dovrebbe diventare green, sostituendo gli altiforni a carbone con i forni elettrici. E barano, perché prima che gli altiforni escano di scena ci vorranno dieci anni (gli enti locali sarebbero disposti a tollerare una fase di transizione al massimo di cinque anni, e a certe condizioni). E per dieci anni almeno Taranto continuerà a essere sepolta da polveri e veleni. Dei tre altiforni necessari a produrre sei milioni di tonnellate di acciaio all’anno, oggi solo uno è in funzione. Per riattivare gli altri due (uno è sotto sequestro della magistratura) ci vogliono soldi e tempo. Ma per dare vita alla transizione ecologica, e per pagare i debiti arretrati, ci vogliono miliardi di euro. I visionari di palazzo Chigi immaginano di prendersi il merito di avere trasformato l’Italia postindustriale in un mondo green. Però è tutta una finzione. Un sogno lungo una stagione. Il prestigiatore Adolfo Urso, il ministro delle Imprese e del Made in Italy, si prepara allo show del 15 settembre, quando si sceglierà di giocare la partita del futuro dell’acciaieria con l’impresa che convince di più.
Sono davvero poche le società o le cordate di aziende e fondi che si sono presentate fino a oggi alla “manifestazione d’interesse”: il fondo americano “Bedrock Industries Management”, l’indiana “Jindal Steel International” e la “Baku Steel Company”. Ma ci sono anche altre aziende interessate a inglobare pezzi di aziende siderurgiche di Acciaierie d’Italia (ex Ilva), nel momento in cui dovesse fallire “l’interesse” per l’acquisizione di tutti gli stabilimenti di Acciaierie d’Italia. Il gruppo Marcegaglia è interessato ai tubifici di Salerno, Racconigi e Socova a Sénas (Francia). Interessate a singoli stabilimenti ex Ilva anche le società “Eusider Group”, “Sideralba”, “Profilmec”.
Insomma, quella che si concluderà il 15 settembre, è una gara poco entusiasmante, il cui esito sarà di certo una mattanza di posti di lavoro.
In queste ore che precedono l’apertura delle buste della gara, il ministro Urso ha mandato tre messaggi chiari. Ha scritto al sindaco di Taranto, Pietro Bitetti, dichiarandosi disponibile a un confronto in città, pur se deluso dalla bocciatura della richiesta di un rigassificatore nel porto di Taranto per alimentare i nuovi forni elettrici e gli impianti del nuovo combustibile green, il “preridotto”. Dire no al rigassificatore – sostiene il ministro – “limita” le possibilità di avere imprese interessate agli impianti siderurgici. Il secondo messaggio l’ha lanciato da Cernobbio, sabato scorso: “Mi auguro che si possano esaminare dei progetti competitivi e sfidanti che il più grande sito siderurgico europeo merita”. Urso sbatte la porta in faccia a ogni illusione di nazionalizzazione degli impianti, se dovessero fallire le trattative con i privati: “È incostituzionale nazionalizzare le imprese siderurgiche o le aziende che operano in regime di concorrenza”. Infine, il ministro Urso in video call ha discusso con il presidente uscente della Calabria, Roberto Occhiuto, sulla possibilità di far nascere a Gioia Tauro il polo nazionale di produzione di “preridotto”, cioè del materiale che diventa acciaio nei forni elettrici. Con il porto e le banchine a disposizione, Gioia Tauro sarebbe in grado di coprire il fabbisogno di “preridotto” per le aziende siderurgiche italiane.
Quello di Urso è un ricatto per imporre il rigassificatore che Taranto ha bocciato. Non serve, è una bomba a orologeria, e soprattutto un ostacolo allo sviluppo del porto commerciale (oggi anch’esso in profonda crisi). Questa è la tesi del Comune di Taranto. A luglio, faticosamente fu definita la nuova Autorizzazione impatto ambientale (Aia), con i pareri contrari di Regione Puglia, Provincia, Comune di Taranto e Statte, e che l’associazione ambientalista e pacifista “Peacelink” si appresta a impugnare. Anche l’accordo di programma fu un mezzo fiasco e il governo decise di prendere tempo lanciando la nuova gara di “manifestazione di interesse” per dare un futuro all’impianto siderurgico tarantino.
È evidente che la questione del rigassificatore è stata congelata. In questi giorni, anche gli agenti marittimi del porto di Taranto sono mobilitati a suo favore (“garantirebbe mille nuovi posti di lavoro”). Ma secondo il Comune di Taranto con i 2,5 miliardi di metri cubi di gas già disponibili per l’Ilva, si possono alimentare i tre forni elettrici e un impianto di produzione del “preridotto” (Dri). Aspettando di trovare altro gas via gasdotti della rete Snam, a Taranto si può partire con uno dei tre impianti. Il ministro Urso però prospetta il via libera al Polo Dri di Gioia Tauro. Dunque il futuro dell’ex Ilva, e di Taranto, è molto incerto. In gioco non ci sono solo ottomila posti di lavoro che diventano diecimila con l’indotto, ma il futuro dei tarantini e dell’ambiente.
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