Il 2025 avrebbe dovuto essere l’anno della ripresa, e invece per l’ospitalità britannica si sta trasformando in un inferno. Costi sempre più alti, margini sempre più risicati, una clientela frenata dal caro-vita. In questo scenario cinquanta tra chef, operatori e voci autorevoli del settore hanno scelto di farsi sentire, firmando una lettera aperta alla cancelliera Rachel Reeves. Un appello accorato che fotografa la crisi di uno dei comparti più importanti dell’economia nazionale e che ha già raccolto l’attenzione dei media e il sostegno di UKHospitality, principale associazione di categoria del settore, con la campagna #TaxedOut. Non è semplicemente una presa di coscienza degli addetti ai lavori, ma una richiesta ai clienti, a cui i ristoratori chiedono di farsi portavoce delle richieste, insieme ai professionisti. Che così chiedono sostegno: «Siamo leader nella creazione di posti di lavoro part-time, di primi impieghi per giovani, anziani e persone che rientrano nel mercato del lavoro. E stiamo generando crescita in tutto il Paese, non solo nelle grandi città, ma anche nei centri urbani e nelle comunità rurali e costiere. Vogliamo tornare a crescere. Ma abbiamo bisogno di tre modifiche al bilancio. E abbiamo bisogno del tuo aiuto. Scopri cosa ti chiediamo e come puoi usare la tua voce per chiedere al Governo di cambiare rotta prima che il settore dell’ospitalità venga #TaxedOut».
Il messaggio è chiaro sin dalle prime righe dell’appello: «I margini già risicati per gli operatori si stanno dissolvendo nel nulla. Affitti e costi energetici in aumento, pesanti carichi fiscali, una clientela alle prese con la crisi del costo della vita e salari più alti… hanno creato una tempesta perfetta». E il grido è preciso: «L’ospitalità non è un lusso. È il terzo datore di lavoro del Regno Unito e un motore cruciale dell’economia. Senza un intervento coraggioso, il futuro di questo settore è in pericolo. La tassazione sul nostro settore è la più alta dell’economia. E questo sta costando posti di lavoro. La situazione deve cambiare. Chiediamo tre cose nella legge di bilancio».
I firmatari invocano una riduzione dell’IVA, oggi al 20% e superiore rispetto alla media europea che si attesta tra il 10 e il 13 per cento; una riforma dei contributi previdenziali (NICs) per sostenere l’occupazione e una revisione delle imposte commerciali, le cosiddette business rates, che gravano in modo sproporzionato su pub e ristoranti. «Aumentare ulteriormente i prezzi non è una risposta sostenibile. Significherebbe solo perdere clienti e accelerare le chiusure», si legge nell’appello.
Dietro a queste parole ci sono volti noti e rispettati della gastronomia britannica. Tra loro Simon Rogan, patron del progetto Aulis e pioniere della cucina sostenibile; Ravneet Gill, pastry chef e volto televisivo; Vivek Singh del Cinnamon Club, che ha portato l’alta cucina indiana a Westminster; Jackson Boxer, anima creativa di Brunswick House; Scott Collins, fondatore di Meatliquor, simbolo dello street food londinese; e Zoe Paskin, che con Palomar e The Barbary ha rivoluzionato il panorama della ristorazione mediorientale a Soho.
A rendere più tangibile la crisi sono le parole di chi la vive in prima persona: «Venticinque anni fa puntavi a un margine netto del 20%. Oggi, se arrivi al 10% sei un guru della ristorazione. La maggior parte fa intorno al 5%, molti vanno in pari, altri in perdita. E intanto lavori 80 o 100 ore a settimana. È impensabile» ha dichiarato Richard H. Turner di Bodean’s in un post Instagram di London on the Inside dedicato alla campagna #TaxedOut. Sulla stessa linea le parole di David Wolanski di Chick ’n’ Sours: «Sembra che l’intero sistema sia costruito contro gli operatori indipendenti, schiacciati da ogni lato: inflazione alimentare, salari crescenti, affitti sempre più alti, service charge, bollette insostenibili. Una battaglia estenuante e infinita solo per tenere accese le luci».
I dati allegati alla lettera non lasciano spazio a dubbi: un terzo delle imprese è in perdita, il 76% dei locali ha aumentato i prezzi nel tentativo di coprire i costi, il 63% ha ridotto le ore di lavoro disponibili per lo staff, con una perdita netta di 124.000 occupati tra maggio 2024 e maggio 2025. Nei primi sei mesi del 2025 hanno chiuso 374 locali, pari a due ogni giorno. Numeri che raccontano meglio di qualsiasi retorica la fragilità del settore.
La paura condivisa è che la mappa urbana del Regno Unito possa cambiare radicalmente, lasciando spazio soltanto a grandi catene e colossi del settore. «Abbiamo bisogno di coraggio e di misure concrete – scrivono – per difendere non solo i nostri posti di lavoro, ma anche la ricchezza culturale e sociale che l’ospitalità porta con sé». Una frase che suona come monito, ma anche come messaggio universale: se crollano i ristoranti indipendenti, non perdiamo solo luoghi in cui mangiare, ma pezzi interi di comunità, di identità e di futuro.
Mentre nel Regno Unito l’allarme suona chiaro, in Italia il settore tiene ma rallentano invece i segnali di tenuta: crescono i consumi e l’occupazione, ma le imprese diminuiscono, i listini salgono e i margini restano compressi. Un panorama che invita alla prudenza e che valorizza dati solidi, necessari anche nel nostro sistema per stimolare discussioni informate. Secondo il Rapporto Ristorazione FIPE-Confcommercio 2025, il settore italiano mostra segnali diversi: 1,5 milioni di occupati (+5% rispetto al 2023, con 70mila dipendenti in più), un valore aggiunto di 59,3 miliardi (+1,4%) e consumi fuori casa a 96,4 miliardi (+1,6%). Ma il numero delle imprese è calato dell’1,2% (–3,3% tra i bar), e il saldo aperture-chiusure resta negativo: nel 2024 hanno chiuso oltre 29mila attività, con un saldo in rosso di 18.378 locali. E se guardiamo alla ristorazione nelle grandi città come Milano e Roma, la strada segnalata dall’appello inglese è dietro l’angolo.
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