Siamo come una nave che, dopo anni di bonaccia in porto, ha finalmente issato le vele e catturato il vento giusto. Al Forum Ambrosetti di Cernobbio, il ministro Giorgetti ha rassicurato tutti: i conti italiani sono in ordine, non servono manovre correttive, la crescita stimata a +0,6% del PIL verrà confermata. Insomma, la rotta sembra tracciata. E, per una volta, smettiamola di fare i Calimero del Mediterraneo: i risultati ci sono, ed è ora di riconoscerlo senza pudori. Perché nonostante le tempeste globali – guerre in Ucraina e in Palestina, tensioni commerciali innescate da Trump, rivoluzioni tecnologiche come l’Intelligenza Artificiale – l’Italia ha acceso i motori. Dopo il Covid, abbiamo trovato una spinta inaspettata: il PIL è oggi del 5,6% superiore al livello pre-pandemia, meglio della media europea.
La disoccupazione è scesa di 3,1 punti, l’occupazione cresce dell’1,7% annuo. Non è un miracolo, ma il frutto di uno sforzo collettivo: gestione oculata dei conti, deficit sotto controllo, e persino una stabilità politica quasi esotica per i nostri standard (il governo Meloni, oltre mille giorni di vita, è il quarto più longevo della Repubblica). Risultato: siamo più credibili della Francia, intrappolata nelle sue crisi politiche e nei suoi conti pubblici disastrati; più solidi della Germania, ancora impantanata nella sabbia mobile del proprio modello industriale; meno sbandati del Regno Unito, che sotto Starmer naviga in acque burrascose. Accanto a questa solidità, va celebrata la straordinaria spinta del Made in Italy. Le nostre imprese, come vele gonfie, hanno accelerato la nave: l’export è passato da 500 a quasi 700 miliardi in soli quattro anni, una crescita del 40%. È un dato che, da solo, basterebbe a ridimensionare certi luoghi comuni sull’Italia incapace di competere. Non stupisce che le agenzie di rating abbiano cambiato sguardo: S\&P ci ha promossi a “BBB+”, Moody’s ha alzato l’outlook a “positivo”. Finalmente non siamo più considerati la zavorra d’Europa.
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Tutto bene, dunque? Possiamo rilassarci sul ponte a goderci il sole, bicchiere di prosecco alla mano? Nemmeno per sogno. Il mare aperto non perdona chi si culla sugli allori. L’Italia ha sì preso il largo, ma non ha ancora fatto i compiti che contano. Serve guardare dentro noi stessi, come ammoniva Socrate, e affrontare almeno tre nodi che continuano a zavorrarci. Primo: l’istruzione. Siamo un Paese del G7, ma con una percentuale di laureati da retrovia europea, appena sopra la Romania. In un mondo in cui l’IA e le tecnologie digitali selezionano chi sa e chi no, restare indietro significa condannarsi a remare con i remi spezzati. Non bastano i licei eccellenti per pochi: servono competenze diffuse, capacità tecniche, visione internazionale. In caso contrario, rischiamo di essere marinai senza bussola. Secondo: la produttività. Da decenni non cresce, anzi arretra. Il FMI parla di -5% nel valore aggiunto per lavoratore e di -13,5% nella produttività totale dei fattori.
Tradotto: remiamo, ma spesso controcorrente. L’unico modo per invertire la rotta è innervare l’economia di digitale, innovazione, sistemi informativi. Investire in tecnologie non è un optional, perché sono l’unico vento capace di spingere la nostra nave. Terzo: la dimensione delle imprese. “Piccolo è bello”? Una favola anni ’70 che oggi rischia di diventare una trappola. Per affrontare dazi, attrarre talenti e investire in ricerca servono imprese più grandi, capaci di navigare mari lontani. Invece restiamo inchiodati alla logica del campanile, convinti che basti la bottega sotto casa per sfidare la concorrenza globale. Senza massa critica, la nostra nave rischia di restare una flotta di barchette. Le sfide sono enormi, ma le basi ci sono. Abbiamo consolidato la chiglia, ora si tratta di spingere davvero la nave in mare aperto. Visione, stabilità politica e cooperazione tra centro e territori saranno la bussola. Ma ciò che serve davvero è un senso d’urgenza collettivo: capire che la bonaccia non durerà e che il vento favorevole va sfruttato ora, prima che si spenga. Perché l’Italia, oggi, è come un veliero che ha finalmente preso velocità dopo anni di ancoraggio forzato. Se ci fermiamo a guardare l’orizzonte senza aggiustare le vele, rischiamo di incagliarci di nuovo. Ma se ci mettiamo tutti al timone, con coraggio e disciplina, questa volta possiamo davvero conquistare il mare aperto. E lì, finalmente, non ci sarà più bisogno di rassicurazioni: parleranno le onde che sapremo cavalcare.
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