Quando, nella primavera 2022, abbiamo scritto della nascita della certificazione della parità di genere – il riconoscimento formale destinato alle aziende che dimostrano di promuovere concretamente l’equilibrio tra uomini e donne – le aspettative erano positive: il Pnrr, che inserisce la misura tra quelle della sua “Missione 5”, mirata a empowerment femminile e abbattimento della discriminazione di genere nel lavoro, stimava circa 800 attestazioni entro il 2026.
Ma i numeri hanno superato ogni previsione: al 31 marzo di quest’anno le imprese certificate sono già 8.110, dieci volte tanto, e coinvolgono oltre due milioni di lavoratrici e lavoratori. Un risultato che testimonia non solo la maturità crescente del tessuto imprenditoriale, ma anche la consapevolezza diffusa dei vantaggi economici del superamento di questo divario, che è motore di competitività, innovazione e resilienza.
La Lombardia nella top ten
«Molti – che già da tempo avevano intrapreso un percorso di pianificazione, gestione e controllo orientato anche alla equità di genere – si sono fatti monitorare per ottenerla» dice Paola Corna Pellegrini, presidente di Winning Women Institute, organizzazione che supporta i processi di inclusione ed equità nel mondo del lavoro e di Aiceo, l’Associazione Italiana CEO. «Parliamo di realtà che in questi anni hanno fatto molto per sostenere le proprie lavoratrici e che hanno colto nel riconoscimento – estremamente rigoroso e, soprattutto, l’unico a fissare parametri quantitativi e non semplici linee guida – l’occasione per misurare i risultati raggiunti».
Un nuovo bando per le aziende per ottenere la certificazione della parità di genere, un passo importante verso il cambiamento (Getty)
Lo confermano i dati raccolti dall’Osservatorio dell’istituto, lanciato lo scorso marzo e artefice della prima mappatura nazionale: «Sulla base dei numeri, quella della parità di genere è già la quarta certificazione più diffusa in Italia, dopo qualità, ambiente e salute e sicurezza (fonte Accredia, ndr ). Un traguardo di cui l’Italia può andare fiera: abbiamo creato uno strumento autorevole e unico, capace di diventare modello anche per Paesi che, sul fronte delle politiche di genere, sono già molto avanzati».
A guidare la classifica delle regioni più attive c’è la Lombardia, con 1622 imprese certificate (il 20 per cento del totale), quindi il Lazio con 1445 e, al terzo posto, la Campania con 846 (dati ufficializzati a marzo 2025): tre regioni che insieme realizzano il 40 per cento di tutte le certificazioni di parità. Seguono Emilia-Romagna, Puglia, Veneto, Piemonte, stando al report dell’Osservatorio di Winning Women Institute, elaborato in collaborazione con ForTeam. In particolare, le grandi imprese (oltre 250 occupati) rappresentano il 15 per cento di quelle certificate; le medie (tra 50 e 249 occupati) il 32 per cento; le piccole (tra 10 e 49 occupati) il 38 per cento; mentre le “micro” (meno di 10 occupati) il restante 15 per cento.
La certificazione della parità di genere, introdotta dalla legge 162/2021 e basata sulla prassi – il documento che indica modelli e linee guida in assenza di una legge nazionale o internazionale – UNI/PdR 125:2022, viene rilasciata da organismi accreditati. Se l’azienda soddisfa i requisiti previsti, ottiene l’attestato, valido tre anni, con monitoraggi annuali di sorveglianza. La valutazione delle aziende si concentra su sei aree chiave, misurate attraverso indicatori quantitativi: equità retributiva, opportunità di crescita, processi delle Risorse Umane, governance, cultura e strategia aziendale e tutela della genitorialità.
Dalle ferie in più allo smartworking
Molte realtà hanno superato più controlli annuali e le prime organizzazioni stanno già lavorando per ottenere la seconda dichiarazione: si può perciò osservare come si caratterizzi l’evoluzione verso il pari trattamento di ogni lavoratore, in quali ambiti si siano fatti progressi e dove resti ancora molto da fare. «In molti casi i buoni risultati si concentrano nel sostegno ai genitori nel combinare lavoro e cura della famiglia, anche se permangono differenze significative tra chi ha oltre 250 addetti e chi meno di 50» spiega Michele Gallo, amministratore delegato di GCerti Italy, società benefit e organismo di certificazione e formazione accreditato da Accredia.
(Getty Images)
«Cito il caso esemplare di un grande gruppo assicurativo: riconosce ai genitori, uomini e donne, tre giorni di ferie al mese retribuiti, in aggiunta ai congedi attribuiti dalla legge, fino ai 12 anni del figlio. Al contrario, le imprese più piccole – quelle dai cinquanta occupati in giù – sono tendenzialmente ancora lontane dall’approntare misure sistemiche e processi strutturati: si limitano a offrire ai genitori quasi esclusivamente smart working e flessibilità oraria, soluzioni organizzative poco complesse, oltre che a costo zero. Purtroppo, settori come l’edilizia e il facility management (ovvero, pulizia, sicurezza, manutenzione, servizi mensa) scontano invece una mentalità piuttosto tradizionalista: faticano ancora a riconoscere il pieno diritto delle lavoratrici a conciliare maternità e carriera».
Cosa ci guadagna chi si certifica
Un’attenzione aziendale sempre diffusa la si misura anche nella lotta a molestie e mobbing, a partire da quella significativa a un linguaggio rispettoso e inclusivo, spiega ancora Gallo. «Molto positivo è anche il lavoro sulle retribuzioni, dove ormai non riscontriamo più differenze di genere, se non per quadri e dirigenti» aggiunge. «Ai vertici aziendali permane infatti una netta prevalenza maschile: affrontando il percorso per l’ottenimento del certificato, le aziende comprendono quanto sia ampio il divario da colmare nelle carriere femminili. Ridurre gap così profondi e consolidati richiede investimenti notevoli – perché gli stipendi maschili hanno avuto progressioni in periodi più floridi e oggi sono quasi irraggiungibili – oltre a un impegno strategico e gestionale di lungo periodo».
Tra le certificate molte puntano ad abbattere i gap di carriera, si stanno concentrando perciò su quelle dei più giovani: le impostano da subito in modo che non siano intaccate da discriminazione, e su progetti che modifichino radicalmente la cultura aziendale in questo ambito. Inoltre, chi oggi si prepara a ottenere la seconda attestazione, punta a raggiungere un punteggio pari o superiore a quello precedente, e questo è un ottimo segnale» conclude Michele Gallo.
Intanto le richieste continuano a crescere, sebbene sia un percorso complesso e impegnativo. Perché? «Le ragioni sono plurime: i dati dimostrano che equità di genere e un approccio inclusivo hanno un impatto positivo su produttività e innovazione, e ottenere questo riconoscimento rappresenta un vantaggio reputazionale, che rende più attrattivi per talenti e clienti» spiega Paola Corna Pellegrini. Gli incentivi economici previsti dalla legge e i punteggi aggiuntivi nei bandi pubblici fanno da ulteriore stimolo.«Le imprese certificate beneficiano dell’esonero dal versamento dei contributi previdenziali fino all’1 per cento e per un massimo di 50mila euro annui, per tutta la durata, triennale, della dichiarazione».
L’effetto volano del certificato
«Quanto ai bandi di gara per l’assegnazione degli appalti pubblici, un’azienda certificata in parità ottiene un punteggio aggiuntivo, aumentando le proprie possibilità di successo» continua Corna Pellegrini. «Inoltre, il Pnrr ha stanziato dieci milioni di euro, parte dei quali trasformati in voucher, per consentire a piccole e micro-attività di certificarsi. Mi piace ricordare anche che, come Winning Women Institute, abbiamo dato assistenza ad alcune grandi realtà nell’introdurre meccanismi premiali per fornitori e partner, che li incoraggiassero a costruire internamente equità di genere e a ottenere la certificazione».
Peraltro, il fatto che le valutazioni degli enti accreditatori si basino su indicatori oggettivi – dati e metriche misurabili – scoraggia ogni uso superficiale dell’attestato. «Non ci si certifica per fare pink washing (iniziative solo di facciata a favore delle donne, ndr) né solo per ottenere sgravi contributivi. Questa attestazione implica un impegno concreto e di lungo periodo verso la parità di genere: raggiunti gli standard richiesti, non si può più tornare indietro. Con l’esaurirsi del budget disponibile, sarà fondamentale che l’Italia stanzi nuove risorse su un fronte sul quale si è dimostrata all’avanguardia».
Nel marzo 2027 scadranno i cinque anni dalla pubblicazione della prassi UNI/PdR 125:2022, relativa alla parità: «Al termine di questo periodo, le indicazioni di indirizzo devono essere trasformate in norma tecnica per poter continuare a essere applicate; in questo modo si consolida e struttura in maniera definitiva il contenuto della prassi, integrandolo con i miglioramenti suggeriti dalle organizzazioni che l’hanno messa a terra» spiega Elena Mocchio, responsabile innovazione e standardizzazione di UNI Ente Italiano di Normazione, che ha gestito il processo di elaborazione del documento del 2022. «Ci sono già tavoli avviati, anche internazionali, per il passaggio a una norma che assicuri efficacia e durata al cambio di passo verso la parità di genere, un percorso sempre più necessario, ineludibile».
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