In un’epoca in cui la sostenibilità è diventata un valore imprescindibile per consumatori e imprese, il rischio di cadere vittima del greenwashing è più alto che mai. Dietro slogan rassicuranti, confezioni verdi e parole come “eco-friendly” o “carbon neutral” si nascondono talvolta strategie di marketing prive di un reale impegno ambientale. Un fenomeno che inganna i cittadini, danneggia le aziende virtuose e mina la fiducia nelle certificazioni ufficiali.
Cos’è il greenwashing
Il termine greenwashing, o “ambientalismo di facciata”, indica l’insieme di strategie comunicative con cui un’azienda, un’organizzazione o un marchio si presentano come sostenibili o attenti all’ambiente senza che tali dichiarazioni siano supportate da reali azioni concrete. L’obiettivo è capitalizzare la crescente sensibilità dei consumatori verso la sostenibilità, influenzando decisioni d’acquisto e migliorando l’immagine pubblica, ma senza un effettivo impegno ambientale.
Il fenomeno non è nuovo, ma oggi assume proporzioni rilevanti: in un mercato sempre più competitivo, e in un contesto in cui la sostenibilità è percepita come un valore imprescindibile, le aziende che comunicano responsabilità ambientale guadagnano fiducia, clienti e reputazione. Tuttavia, quando la comunicazione non corrisponde alla realtà, il danno per i consumatori e per il tessuto economico è duplice: da un lato si ingannano i cittadini, dall’altro si penalizzano le imprese realmente virtuose.
Perché il greenwashing è un problema oggi
La sensibilità ambientale è in costante crescita: le indagini rivelano che sempre più persone orientano le proprie scelte verso prodotti e servizi percepiti come sostenibili. In parallelo, la pressione sociale e normativa spinge le aziende a integrare nei propri piani strategici azioni legate a ESG (Environmental, Social, Governance).
Tuttavia, i dati mostrano un quadro preoccupante: un rapporto redatto dalla Commissione Europea nel 2021 afferma che fino al 42% dei siti web aziendali esaminati dalle autorità contiene green claim ingannevoli o non verificabili. A livello globale, circa la metà delle grandi aziende rischia di cadere nel greenwashing, spesso per dichiarazioni eccessivamente generiche o per l’uso di indicatori parziali che non descrivono l’intero impatto ambientale di un’attività.
Il problema non è solo etico: il greenwashing mina la fiducia nei confronti di tutta la comunicazione green, generando scetticismo verso le stesse certificazioni e scoraggiando il cambiamento reale.
Tipologie e “peccati capitali” del greenwashing
Le forme di greenwashing più comuni comprendono l’uso di affermazioni vaghe, come “ecofriendly”, “naturale” o “sostenibile”, senza specificare in che misura e in base a quali criteri tali termini possano essere giustificati. Sebbene queste dichiarazioni possano risultare rassicuranti, in assenza di dati concreti si riducono a semplici operazioni di marketing.
Secondo TerraChoice Environmental Marketing, ci sono 7 segnali chiave che identificano le pratiche di greenwashing:
- peccato della falsa scelta: lo commette chi fa affermazioni ambientali basandosi su un insieme molto ristretto di attributi e ignorando volutamente tutti gli altri, per distogliere l’attenzione dei consumatori dagli impatti negativi;
- peccato della mancanza di prove: si verifica quando un brand non fornisce prove affidabili a sostegno delle proprie dichiarazioni ambientali;
- peccato della vaghezza: consiste nell’usare appositamente parole a effetto, evocative ma al tempo stesso poco chiare, generiche o non corrispondenti a una performance di sostenibilità regolamentata (come “green”, “ecologico”, “amico dell’ambiente”). Nella comunicazione, anche la vaghezza è una “forma implicita di inganno” e spesso è più subdola rispetto a una bugia vera e propria.;
- peccato dell’irrilevanza: lo commette chi vanta come un pregio caratteristiche che, in realtà, corrispondono semplicemente ai requisiti di legge. Nel caso di un cosmetico, ad esempio, dire “non contiene piombo” è una forma di inganno, perché dà per scontato che i prodotti analoghi in commercio contengano la sostanza quando in realtà la legge la vieta;
- peccato del male minore: è il peccato di chi sottolinea aspetti migliorativi rispetto a un concorrente, bypassando però l’impatto negativo dell’intera categoria di prodotto;
- peccato della menzogna: come suggerisce il nome, corrisponde a fare dichiarazioni false o fuorvianti sui benefici ambientali
- peccato della falsa certificazione: è l’utilizzo di etichette accattivanti che all’apparenza sembrano autorevoli ma, in realtà, non corrispondono ad alcuna certificazione riconosciuta.
Riconoscere queste strategie è fondamentale per difendersi e distinguere tra comunicazione autentica e pura retorica verde.
Normativa vigente (aggiornamento 2025)
Con la sostenibilità divenuta un vantaggio competitivo, l’UE ha introdotto norme per definire, misurare e vigilare sulle pratiche ESG, sia finanziarie che extra-finanziarie. L’obiettivo è contrastare il greenwashing, garantire trasparenza e proteggere i consumatori da affermazioni ingannevoli.
Direttiva UE 2024/825 (Empowering Consumers for the Green Transition)
Uno spartiacque in tema di greenwashing è la Direttiva europea 2024/825/UE, pubblicata il 6 marzo 2024 e nota come “Empowering Consumers for the Green Transition”.
In sostanza, mette nero su bianco cosa sono i green claim (dichiarazioni ambientali), ampliando la definizione fino a comprendere non solo parole, marchi e loghi, ma anche immagini evocative, colori, musiche e paesaggi che trasmettano l’amore per il Pianeta.
Dopodiché, la direttiva vieta una serie di pratiche potenzialmente ingannevoli per il consumatore. Tra queste rientra l’uso di espressioni vaghe, come “verde” o “rispettoso dell’ambiente”, quando non accompagnate da specifiche verificabili. Sono inoltre proibiti loghi o simboli di sostenibilità privi di un reale sistema di certificazione o non riconosciuti da enti pubblici. Non è consentito formulare affermazioni che facciano intendere un impatto positivo sull’intero prodotto quando, in realtà, riguardano solo un elemento specifico, come l’imballaggio. Allo stesso modo, le diciture “carbon neutral” non possono basarsi unicamente su compensazioni, ma devono derivare da una reale riduzione delle emissioni. Vengono poi vietate dichiarazioni fuorvianti sulla durata del prodotto o sulla sua possibilità di essere riparato, così come l’enfasi su caratteristiche che si limitano al semplice rispetto di requisiti minimi di legge.
I singoli Stati membri, compresa l’Italia, dovranno recepire il testo entro marzo 2026, mentre le imprese avranno tempo fino a settembre dello stesso anno per conformarsi pienamente alle nuove disposizioni.
Legislazione e codici nazionali
In Italia il greenwashing è contrastato dalla Direttiva 2005/29/CE sulle pratiche commerciali sleali; questa vieta qualsiasi comunicazione che possa indurre in errore il consumatore, sia per azione sia per omissione. Questo include affermazioni false o fuorvianti su caratteristiche, benefici o impatti ambientali di un prodotto o servizio, anche se l’inganno è “potenziale” e non solo effettivo.
Poi c’è il Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale, un insieme di regole volontarie sottoscritte dalle aziende che aderiscono all’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria. Tra le regole c’è il divieto di messaggi pubblicitari che contengano indicazioni false o ambigue, o che possano indurre in errore su caratteristiche, provenienza, qualità o impatto ambientale, e impone che i riferimenti a benefici ambientali siano pertinenti, verificabili e non enfatizzati in modo da fuorviare.
L’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) ha il potere di vigilare e sanzionare comunicazioni ambientali scorrette, mentre nei casi che riguardano investimenti sostenibili può intervenire anche la CONSOB.
Le sanzioni possono includere multe consistenti, ordini di ritiro delle comunicazioni ingannevoli e, in casi estremi, azioni giudiziarie da parte di concorrenti o associazioni di consumatori. Il caso Alcantara vs Miko, legato a claim ambientali nel settore tessile, è un esempio concreto di applicazione della normativa.
Casi reali e aziende italiane: tra greenwashing e pratiche autentiche
Dalle campagne pubblicitarie milionarie ai rebranding ambiziosi, numerosi casi di greenwashing hanno sollevato interrogativi su come le aziende sfruttino l’attenzione dell’opinione pubblica sul tema della sostenibilità per guadagnare vantaggi competitivi.
Esempi di greenwashing in Italia
In Italia, uno dei casi più discussi ha riguardato Fileni, noto produttore di carni bianche che, pur potendo vantare la certificazione BCorp, è stato accusato da alcune associazioni ambientaliste di utilizzare dichiarazioni ritenute fuorvianti in merito al benessere animale e all’impatto ambientale delle proprie attività.
Anche Intesa Sanpaolo è finita al centro di critiche: alcune sue comunicazioni in ambito ESG sono state messe in discussione, in particolare per quanto riguarda il finanziamento di iniziative e progetti con un elevato impatto ambientale.
Recentemente, anche Eni è stata accusata più volte di greenwashing, in particolare per la promozione del brand Plenitude durante il Festival di Sanremo del 2025 e delle edizioni passate, nonostante la società continui a investire pesantemente sui combustibili fossili.
Esempi positivi di sostenibilità trasparente
Un esempio di sostenibilità trasparente è rappresentato da Botta EcoPackaging, azienda che propone soluzioni di imballaggio compostabile certificato, affiancandole a strumenti digitali per ottimizzare la logistica e potendo contare su riconoscimenti come le certificazioni FSC, ATICELCA e gli standard CONAI.
Un altro caso positivo è l’adozione del marchio internazionale EKOenergy da parte di realtà come Gruppo Hera, ForGreen e Iliad, scelta che garantisce la provenienza rinnovabile dell’energia fornita e il rispetto di criteri verificabili stabiliti da standard internazionali.
Come evitare il greenwashing: pratiche consigliate
Per evitare il greenwashing, le aziende dovrebbero formulare affermazioni ambientali precise e supportate da dati quantitativi, facendo riferimento a certificazioni riconosciute come l’Ecolabel UE, l’EMAS, il già citato EKOenergy o il Made Green in Italy.
È fondamentale che pubblichino report ESG completi e accessibili, comprensivi di valutazioni del ciclo di vita, e che ricorrano a verifiche condotte da audit esterni indipendenti. Inoltre, devono aggiornare periodicamente le informazioni per evitare l’uso di dati obsoleti o inconsistenti. Dal canto loro, i consumatori possono tutelarsi verificando la presenza di certificazioni ufficiali, diffidando di dichiarazioni vaghe non suffragate da prove concrete e consultando fonti indipendenti o report di terze parti per ottenere un quadro più affidabile.
La lotta al greenwashing rappresenta oggi una sfida imprescindibile per garantire che la sostenibilità non resti confinata a un’operazione di marketing, ma diventi un impegno concreto e misurabile. In un contesto normativo sempre più stringente, aziende e operatori del settore hanno la responsabilità di adottare criteri chiari, certificazioni riconosciute e una comunicazione trasparente, in grado di resistere alla verifica dei fatti. Solo così sarà possibile proteggere i consumatori, rafforzare la fiducia nel mercato e favorire una reale transizione verso un’economia più verde.
FAQ greenwashing
Che cosa è il greenwashing?
Il greenwashing è una strategia di marketing con cui un’azienda comunica in modo ingannevole un’impronta ambientale positiva dei propri prodotti o servizi. Spesso si tratta di dichiarazioni vaghe, non verificate o fuorvianti che mirano a far apparire “green” ciò che in realtà non lo è.
Quali sono le norme in vigore in Italia per contrastare il greenwashing?
In Italia, il greenwashing è regolato principalmente dal Codice del Consumo e dalle linee guida dell’AGCM (Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato). Le aziende devono garantire che i claim ambientali siano chiari, verificabili e basati su dati scientifici.
Quando entra in vigore la Direttiva UE 2024/825?
La Direttiva UE 2024/825, che mira a rendere più trasparenti le comunicazioni ambientali delle imprese, entrerà ufficialmente in vigore il 1° gennaio 2026, con obblighi progressivi di adeguamento per le aziende di tutta l’Unione Europea.
Quali parole chiave sono vietate in etichette e marketing?
Sono vietati termini vaghi o ingannevoli come “eco-friendly”, “green”, “sostenibile” o “biologico”, se non supportati da prove verificabili e certificazioni ufficiali. L’uso improprio di questi claim può essere considerato pratica commerciale scorretta.
Come posso riconoscere un claim ambientale veritiero?
Un claim ambientale è affidabile se è supportato da certificazioni riconosciute (es. EU Ecolabel, ISO 14024) e se riporta dati concreti e misurabili sull’impatto ambientale. Inoltre, dev’essere trasparente, senza esagerazioni o termini vaghi, ma soprattutto verificabile tramite documentazione pubblica o audit indipendenti.
Quali esempi italiani di greenwashing o di buone pratiche esistono?
Esempi di greenwashing in Italia includono campagne pubblicitarie di aziende che dichiarano sostenibilità senza certificazioni o con dati poco chiari.
Buone pratiche italiane sono ad esempio Barilla e Enel, che comunicano iniziative ambientali supportate da report dettagliati e certificazioni ufficiali, come l’uso di energia rinnovabile o riduzione di emissioni.
Greenwashing: quali sanzioni rischiano le aziende?
Le aziende che praticano greenwashing possono incorrere in multe pecuniarie dall’AGCM, l’obbligo di rettifica pubblica dei messaggi ingannevoli, oltre ad un danno reputazionale e perdita di fiducia dei consumatori. Nei casi più gravi, anche azioni legali da parte dei consumatori o dei concorrenti.
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