Giancarlo Giorgetti, consacrato dalla stampa internazionale come il miglior ministro delle Finanze, si gode i successi ma non dimentica il piccolo paese da dove viene. E il valore della famiglia. A costo di inimicarsi le banche.
Chissà se al Financial Times sanno dov’è Cazzago Brabbia. Chissà se alla redazione di The Banker, la pubblicazione mensile di affari internazionali del prestigioso quotidiano finanziario della City, si sono informati sui pesci che si pescano in quel paese da 800 anime che si affaccia sul Lago di Varese prima di nominare un figlio di quel villaggio di pescatori dal clima quasi scozzese come «ministro delle Finanze dell’anno 2025». E chissà cosa avranno detto gli abitanti di Cazzago Brabbia quando uno di loro, Giancarlo Giorgetti, ha conquistato uno dei riconoscimenti più ambiti nel gotha dei poteri forti economici globali.
Di sicuro lui, l’uomo dei conti del governo Meloni, leghista tutto d’un pezzo, avrà gioito come i pescatori suoi vicini di casa, pensando già a domani e alle prossime sfide. Il vicesegretario del Carroccio è salito sul tetto del mondo finanziario «per il suo impegno nel ridurre il crescente deficit in Italia e nel sostenere gli investimenti pubblici, con un piano a lungo termine volto a ridurre l’imponente rapporto debito-Pil». E ancora: «Essere il ministro delle Finanze in Italia», prosegue la rivista, «è un compito ingrato. I problemi economici che affliggono il Paese sono tanti: una crescita lenta, la bassa produttività, l’elevata evasione fiscale e uno dei più onerosi debiti pubblici al mondo», si legge su The Banker. «Queste sfide», conclude l’analisi, «spiegano perché molti governi italiani hanno finito per nominare principalmente dei tecnici come ministri delle finanze negli ultimi due decenni. Giorgetti, scelto nel 2022, rappresenta un’eccezione».
Non a caso il grande capitale internazionale è tornato a guardare al nostro Paese: il 30 per cento dei Btp è in mano a investitori esteri e un rivolo di questo fiume è finito a Piazza Affari, portando l’indice ai massimi dal 2007.
Quando fu indicato come custode del debito italiano – oltre 3 mila miliardi di euro – non si sentirono le fanfare suonare, come invece accadde quando arrivarono a Palazzo Chigi i super-tecnici. Uno su tutti Mario Monti. Col suo loden sobrio doveva salvarci dalla tragedia greca, abbassare lo spread, restituire fiducia sull’Italia, ma quando lasciò la presidenza del Consiglio gli interessi da pagare per vendere titoli di Stato erano ancora superiori. Contemporaneamente il disavanzo del nostro Paese aumentò così come le tasse. Una su tutte l’Imu che colpisce l’investimento immobiliare, il più amato dagli italiani. Senza dimenticare gli oltre 10 centesimi in più sui carburanti.
Ma un altro super-tecnico, quasi un messia, era Mario Draghi. Peccato che da presidente della Bce non raggiunse mai l’obiettivo di inflazione del 2 per cento. Oppure quando lanciò parole d’ordine che, propagandate da quelli che non piacciono alla gente che piace, sarebbero state marchiate a fuoco come “populiste” . Valga per tutti l’annuncio che «non è il momento di prendere i soldi ai cittadini, ma di darli» dopo la pandemia. O quando scriveva – fatalità proprio sul Financial Times – che esistono due debiti, quello buono e quello cattivo, con applausi al seguito. Niente applausi invece per Giorgetti, in quanto leghista che calpesta il prato di Pontida o va alle feste di partito in giro per la Lombardia, sedendosi su panche di legno sotto un tendone con le zanzare libere di scorrazzare in mezzo a persone che non avranno studiato ma mandano avanti l’Italia col loro lavoro. Ha dovuto sudare sette camicie per farsi accettare, prima che apprezzare. Ma alla fine – scriveva ancora The Banker – «la Commissione Ue ha elogiato il suo lavoro, considerando la manovra di bilancio 2025 dell’Italia in linea con le sue raccomandazioni e le sue regole, e definendo il piano di rientro del debito del Paese credibile e sostenibile». Ora aspetta di assaggiare il piatto della vendetta contro i super tecnici se davvero riuscirà a portare il deficit al 3 per cento con un anno di anticipo. Mai successo ai nostri governi noti in Europa per le promesse mancate. Come ha fatto? Vediamo.
Giorgetti nasce il 16 dicembre 1966 da papà Natale, pescatore, e mamma Angela, operaia. Sa quindi bene cosa vuol dire far quadrare i conti in famiglia, non a caso a ogni occasione chiede alle banche di fare la loro parte per fornire credito più a buon mercato alle imprese per investimenti, assunzioni, creazione di ricchezza e di benessere dei dipendenti. Diplomato come perito aziendale, si laurea alla Bocconi in economia aziendale e diventa dottore commercialista e revisore dei conti. Proprio grazie al potente pezzo di carta diventerà un pupillo di Umberto Bossi, che lo porterà con sé a Roma a partire dal 1996, quando Giorgetti, candidandosi con la Lega secessionista del dio Po, supera i candidati del Polo e dell’Ulivo in un collegio uninominale in provincia di Varese. Sono quasi 30 anni, dunque, che l’attuale ministro dell’Economia frequenta i palazzi romani della politica. Ma lui, appena può, si rifugia a Cazzago Brabbia, dove ha fatto il sindaco dal 1995 al 2004. Quell’esperienza l’ha reso concreto pensando più a rispondere ai cittadini con i fatti più che con gli slogan o le promesse che non si possono mantenere.
Proprio il suo pragmatismo e il suo silenzio che fa più rumore di tante dichiarazioni o post sui social rappresentano il tratto distintivo del miglior «ministro delle Finanze» europeo secondo The Banker. Tutte qualità apprese nel suo paesino. I pescatori parlano poco per non far scappare le prede lacustri e ogni giorno, di ritorno con la barca, fanno i conti e un esame di coscienza davanti al “pescato” quotidiano. Giorgetti quando torna sulle rive del suo lago cammina, cammina, cammina. Poi magari va a prendere il sole in barca. Solitario. Ma anche attento a quello che succede intorno, a quello che la natura comunica. Da sempre ha vissuto accanto a una palude, quella di Brabbia, e forse proprio grazie all’abitudine a convivere con la palude è riuscito a fare carriera a Roma, dove la politica fa e disfa e dove il rischio di rimanere impantanati è un attimo.
In silenzio ha rimesso in piedi il Monte dei Paschi, la più antica banca d’Italia dicono a Siena, ma finita sull’orlo del crac per l’allegra gestione riconducibile a quando la sinistra dominava la città del Palio e di conseguenza pure Mps. Giorgetti è riuscito nell’impresa che non è riuscita ai “compagni”, ovvero risanare l’istituto e portarlo a diventare addirittura predatore nel risiko bancario – per carità, di carta – puntando al tempio sacro, cioè Mediobanca, che custodisce un tesoro come il 13 per cento di Generali, percentuale tale da garantirgli di fatto il controllo delle nomine del Leone triestino. Giorgetti però ha anche lavorato nella difesa di Banco Bpm, banca a lui sempre cara fin dai tempi del cugino presidente Massimo Ponzellini, dall’offerta di acquisto avanzata da Unicredit. Ha sfidato l’Europa che minaccia la procedura d’infrazione. Vedremo come andrà a finire. Sempre lui ha dato l’ok a Poste, controllata da Cdp, per diventare azionista di punta della nuova Tim e alla stessa Cdp, che vede il Tesoro al 70 per cento, di prendere le redini di Nexi ovvero la regina dei pagamenti digitali italiani e non solo. Adesso c’è chi parla di una nuova merchant bank a Via XX Settembre. Invidiosi. Quella c’era ai tempi di Massimo D’Alema e della cosiddetta “razza padana” di Colaninno e Gnutti.
Il ministro può permettersi di dirigere il traffico della nostra finanza grazie all’autorevolezza acquisita a suon di risultati, i quali hanno riportato la fiducia sull’Italia. Basta vedere lo spread: con i tedeschi è sceso sotto gli 80 punti base, mentre con i francesi siamo quasi pari.
Non solo: un titolo di Stato su tre ora è in mano a investitori internazionali. Altro che Monti. L’autorevolezza non vale comunque solo per attrarre capitali nuovi da fuori confine, ma pure per respingere gli assalti della politica alle casse pubbliche.
E qua forse, bisogna dirlo, ad aiutare Giorgetti c’è il suo passato da portiere. Nel 2002 andò in ritiro pre-campionato col suo Varese. A 36 anni trascorse le vacanze estive, da presidente della commissione Bilancio della Camera, ad allenarsi pur sapendo che non avrebbe mai giocato. Colpa del calcio, che lui ha nelle vene. Varese nel cuore, ma fra le big tifa Juve. Anche se il suo sogno proibito è il Southampton, formazione inglese che lo spingeva a seguire le partite volando oltre la Manica.
Una squadra che somiglia all’Italia: un passato lontano d’eccellenza. Un presente difficile (fresca di retrocessione). Speranza di riscatto.
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