Export e dazi, servono più manager qualificati




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Servono più manager qualificati nell’export – Archivio

La guerra commerciale con gli Stati Uniti ha aperto un dibattito sulla necessità di trovare altri mercati esteri da parte delle imprese italiane. E soprattutto di affidarsi a manager e tecnici specializzati nella gestione dei processi, della logistica e della distribuzione dei prodotti made in Italy. «Con i dazi al 15%, il Centro Studi di Conflavoro stima una perdita dello 0,6% del Pil, pari a 13 miliardi di euro, di cui otto miliardi diretti sulle imprese, tre sulla filiera e due sull’indotto, con 40mila posti di lavoro a rischio, 13mila dei quali al Sud. Se si aggiungono gli effetti del deprezzamento del dollaro, le perdite potrebbero aumentare di 5,3-7,5 miliardi, con altri 20mila posti a rischio. Andava evitata una guerra dei dazi, è vero, ma ora è essenziale diversificare i mercati per promuovere ovunque il made in Italy delle nostre imprese». È quanto dichiara Roberto Capobianco, presidente nazionale di Conflavoro. Secondo il Centro Studi, i settori più colpiti saranno meccanica (10,8 miliardi), agroalimentare (7,8 miliardi), moda (5 miliardi), arredamento (1,6 miliardi) e tecnologia (1,3 miliardi). Le regioni più esposte sono Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna, con danni e posti a rischio elevati. A questi impatti seguirà un aumento dei costi per il welfare, con 795 milioni di euro per gli ammortizzatori sociali diretti e 690 milioni per i costi collaterali legati alla riqualificazione professionale, sofferenze bancarie e riduzione degli investimenti. Capobianco aggiunge: «L’Europa deve negoziare esenzioni settoriali con gli Usa, in particolare per moda e agroalimentare, e la Bce deve adeguare i tassi alle reali condizioni economiche per garantire alle imprese un accesso stabile al credito. Chiediamo al governo Meloni di creare un corridoio economico per proteggere esportatori e filiere, destinando i fondi del Pnrr come promesso al tavolo di Palazzo Chigi di aprile, che auspichiamo venga riattivato, e di istituire una task force tra i ministeri delle Imprese e del Lavoro per monitorare le crisi aziendali e attivare percorsi di ricollocazione. Le pmi italiane sono a un bivio perché aumentano i costi e la concorrenza globale è sempre più spietata. Bisogna salvaguardare e anzi incrementare la competitività del nostro sistema produttivo».

Per l’Italia si apre tuttavia una finestra di opportunità concreta: possiamo essere più competitivi non solo nei prezzi, ma anche sul fronte della struttura commerciale. Per tutte le altre categorie merceologiche materiali, una mossa strategica oggi potrebbe essere quella di costituire una società negli Stati Uniti, in forma consortile tra più aziende dello stesso settore. Questa società agirebbe da importatore-distributore diretto, evitando il tradizionale ricarico del 30-35% applicato dai distributori terzi. In pratica, diventi l’importatore e il distributore di te stesso. Con tutti i vantaggi in termini di margini, controllo e rapidità di accesso al mercato che questo comporta.

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«Sebbene i dazi statunitensi rappresentino una sfida per l’export italiano, registriamo segnali concreti di resilienza e opportunità nel mercato del lavoro – spiega Rosario Rasizza, presidente di Assosomm-Associazione nazionale delle Agenzie per il lavoro e ad di Openjobmetis –. In primo luogo, l’attuale tasso di disoccupazione è stabile e relativamente basso: a maggio 2025 è al 6,5%, un livello che non si vedeva da oltre un decennio, e solo 0,6 punti in più rispetto a novembre-dicembre 2024 – i valori più bassi dal 2004. Sul fronte occupazionale, l’Istat segnala +1,9% di occupati su base annua (pari a circa +450mila persone) nel primo trimestre 2025. Sul versante economico, nonostante i rischi legati ai dazi, la Commissione Europea prevede una crescita del PIL reale italiana di +0,7% nel 2025, trainata dalla domanda interna, con un miglioramento dell’occupazione e del potere d’acquisto. Il settore export potrebbe risentire: secondo Confindustria, un dazio del 10 % Usa comprometterebbe fino a 20 miliardi di euro di export, con potenziale perdita di 118mila posti di lavoro nel prossimo anno. Tuttavia, grazie alla flessibilità delle imprese italiane, vediamo già azioni di diversificazione dei mercati e accelerazione nell’adozione di nuove tecnologie. In questo quadro, le Agenzie per il lavoro possono svolgere un ruolo decisivo. Offrendo servizi di outplacement, ricollocazione e formazione, possiamo supportare sinergicamente imprese e lavoratori, mantenendo stabile il mercato occupazionale e preparando le professionalità per nuovi percorsi formativi».

Le opportunità per i manager

Per molte imprese italiane il mercato statunitense non è solo un canale di vendita: è un vero e proprio hub operativo, con stabilimenti produttivi, reti distributive locali e trading company controllate dalla casa madre. È in questo contesto che assume un ruolo chiave una figura spesso trascurata nella riflessione strategica, ma centrale nell’operatività quotidiana: il manager espatriato.

«Nel linguaggio della geopolitica commerciale, i dazi sono spesso letti come cifre, grafici, percentuali. Ma dietro ogni percentuale c’è un ciclo produttivo da riorientare, una filiera logistica da riadattare, un prezzo da ricalibrare. E, soprattutto, persone chiamate a gestire l’impatto di questi stravolgimenti: manager e team locali, che operano in loco o controllano una regione più ampia basandosi presso la casa madre, ma in continuo e perenne movimento nella regione medesima attraverso presenze ripetute e business trip strategici. Per questo, in un momento come quello in corso, non possiamo non interrogarci sulle competenze, le responsabilità e le opportunità dei dirigenti italiani già operativi negli Stati Uniti», sottolinea Andrea Benigni, ceo di Eca Italia.

Ma quante sono le figure presenti negli Stati Uniti? «Non esiste in generale un censimento preciso sul numero di manager e tecnici italiani inviati stabilmente negli Usa dalle capogruppo italiane che hanno delle società controllate negli Stati Uniti. Nel 2023, lo stock italiano di investimenti diretti negli Usa ha raggiunto 49,3 miliardi dollari statunitensi, con flussi netti pari a 1,09 miliardi dollari. Considerando una rete di circa 3.150 filiali italiane, ciascuna con una media di 80 dipendenti, e ipotizzando che tra il 12 % e il 18 % siano figure manageriali o specialistiche, possiamo stimare con prudenza che i manager e i tecnici italiani impegnati in assegnazione ricorrente e stabile negli Usa siano compresi in un range tra 25mila e 35mila unità, occupando ruoli che vanno dal ceo al coo, dal cfo al marketing director passando per plant manager, product manager, supply chain manager e tecnologi di prodotto», afferma Benigni.

Per Valter Quercioli, presidente di Federmanager, comunque, «l’Unione Europea deve agire come un blocco coeso di fronte alla guerra commerciale che rischia di compromettere il posizionamento delle produzioni italiane faticosamente conquistato negli anni sull’importantissimo mercato Usa. Gli aumenti dei dazi sulle esportazioni europee non rappresentano solo una minaccia economica, ma anche una sfida diretta per l’industria italiana, che dovrà fare tesoro di questa prova comunque vada. L’impatto economico sarebbe molto significativo: oltre 35 miliardi di euro di esportazioni italiane dovrebbero trovare nuovi mercati di sbocco. I settori più vulnerabili sono tra quelli più strategici per il nostro Paese: agroalimentare, farmaceutica, automotive e chimica. Le perdite per l’agroalimentare potrebbero raggiungere i 2,3 miliardi di euro, con aumenti tariffari fino al 45% per i formaggi, 35% per i vini e 42% per le conserve e le marmellate. La farmaceutica, che rappresenta una parte significativa dell’export italiano, rischia danni superiori a quattro miliardi di euro. In questo scenario la risposta deve essere unitaria e forte. I nostri manager sono già pronti ad attuare soluzioni alternative per le imprese in cui operano, ma diventa fondamentale da parte delle istituzioni una strategia e degli investimenti per sostenerli in questa sfida complessa. L’approccio a nuovi mercati richiede conoscenze, investimenti, un supporto concreto dalle rappresentanze e organismi che operano sul piano internazionale e, naturalmente, adeguate competenze manageriali. Siamo in campo per offrire agli interlocutori istituzionali le migliori competenze manageriali, in grado di definire politiche industriali e commerciali incisive anche in risposta ai mutevoli scenari internazionali. La nostra Federazione è pronta a mettere sul tavolo proposte concrete che recepiscano le istanze di cittadini e imprese e contestualmente favoriscano l’innovazione, la sostenibilità e il rafforzamento della competitività di cui il sistema ha bisogno».

Anche gli oltre 45mila dirigenti associati a Manageritalia testimoniano che la managerialità e la competenza sono tra i principali elementi di cui ha bisogno l’Italia per governare all’interno delle organizzazioni fenomeni come la transizione digitale, transizione ecologica e la riorganizzazione del lavoro. E soprattutto la gestione delle esportazioni. «I dazi e la volatilità finanziaria e dei mercati richiamano ancor più a un impegno della nostra associazione e dei manager per supportare le forti trasformazioni che a maggior ragione oggi dobbiamo portare a compimento». Cosi Marco Ballarè, presidente di Manageritalia, che continua: «È necessario anche incrementare il dialogo con le istituzioni, perché mai come in questo momento vanno ascoltati i protagonisti dei mercati: imprenditori, manager e professionisti. Le loro idee possono aiutare la politica a definire le linee guida dell’azione governativa, apportando stimoli e riflessioni a livello politico ed economico».

Da ricordare che in Italia, il mondo dei servizi di mercato è il 59% del Pil (73% includendo anche il pubblico) e sempre più protagonista dell’economia del Paese. Il settore occupa oltre il 50% dei lavoratori e dal 1995 ha generato oltre 3,5 milioni di posti di lavoro. In particolare, la managerialità italiana ha fatto segnare +2,6% nell’ultimo anno nel settore privato e + 9.4% dal 2008 a oggi. Questo anche se nell’intera economia italiana rimane il gap con l’estero, visto che solo nel 30% delle nostre aziende familiari c’è un manager esterno alla famiglia dell’imprenditore contro l’80% di Francia, Germania e Spagna. Per questo in Italia abbiamo solo 0,9 dirigenti ogni 100 dipendenti contro il 2-3 dei principali competitor europei, segno di quanto ci sia ancora tanto da fare per introdurre una maggiore managerialità nelle imprese per far crescere l’economia e la nazione. Soprattutto al tempo dei dazi con gli Usa.

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Il nuovo scenario

«Nello scenario commerciale di oggi, per le aziende italiane diventa imperativo adottare una visione strategica e di lungo periodo, andando oltre le scelte tattiche volte a contrastare la volatilità e frammentazione del mercato globale. In questo modo, le imprese potranno continuare a contribuire agli scambi commerciali e alle esportazioni, che nel 2024 — secondo Istat e Ice — hanno registrato una modesta flessione dello 0,4% rispetto al 2023, con un valore complessivo di 623,5 miliardi di euro per le merci. L’export è uno dei principali driver strategici per la crescita delle aziende e di tutta l’economia italiana: grazie all’eccellenza del Made in Italy, le esportazioni generanoquasi un terzo del Pil nazionale», così Ernesto Lanzillo, partner e Deloitte Private Leader, che prosegue: «A ulteriore conferma della centralità della internazionalizzazione e dell’export, ci sono i dati emersi dall’ultima edizione del Bmc-Best Managed Companies, l’award di Deloitte Private che premia le eccellenze imprenditoriali italiane. Tra le aziende Bmc, circa la metà guarda sempre all’estero per ampliare il proprio bacino di vendite e clienti (48%), mentre una su quattro lo fa per avviare collaborazioni con nuovi fornitori. Analizzando le modalità di ingresso nei mercati esteri, poi, emerge che il 74% delle Bmc affida la propria strategia di internazionalizzazione all’esportazione diretta; altre soluzioni sono l’investimento diretto (44%), l’esportazione indiretta tramite consorzi, trading company, buyer e importatori (36%), nonché accordi strategici come Joint Ventures, Licensing, Franchising (29%)».

«Nel nuovo quadro internazionale, la qualità del “Bello e Ben Fatto” del Made in Italy, deve rappresentare un primo punto di consapevolezza dei nostri esportatori: la qualità viene pagata e le nostre aziende devono puntare su questo con azioni di branding, ma soprattutto con efficientamento ed innovazione di processi e prodotti che, oltre a ridurre i costi di produzione, le rendano ancora più “essenziali” nelle catene di valore e “ambite” dai consumatori globali, al di là dell’effetto tariffario», scrive il Private Leader di Deloitte.

«Inoltre, il nostro export ha un ampio margine di diversificazione verso nuovi mercati ad alto potenziale: oltre ai territori strategici per l’export italiano, le imprese possono espandersi verso nuove aree che, grazie alla loro dinamicità, possono offrire opportunità di crescita e contenere gli effetti di politiche tariffarie avverse. In questo senso, il ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione internazionale ha fissato l’obiettivo di portare il valore dell’export italiano a700 miliardi di euro nel 2027, varando unPiano dAzione strategico per lexport nei mercati extra-Ue ad alto potenziale, basato sullasinergia tra tutti gli attori del Sistema-Italia: è importante che le aziende conoscano e facciano leva su questo piano, non solo per quanto riguarda lo scouting di nuovi paesi di sbocco, ma anche per lesistenza di vantaggi fiscali e tariffari che, in questa fase, possono rivelarsi particolarmente utili».

E se, secondo Sace, le imprese esportatrici registrinoun aumento del fatturato dell’1,5% in più rispetto a quelle che non esportano, lexport è soltanto un tassello del processo di internazionalizzazione. Dal punto di vista delle imprese, internazionalizzare può significare quindi andare oltre lexport. «Guardando alle possibili opzioni strategiche per internazionalizzare, le aziende possono, infatti, avviare rapporti commerciali come l’esportazione indiretta, attuare investimenti diretti esteri oppure stringere alleanze strategiche. Inoltre, per promuovere lo sviluppo del business all’estero, le imprese possono fare leva su una serie di abilitatori, quali il commercio elettronico tramite e-commerce, i market place o il presidio a fiere, eventi e consorzi», continua Lanzillo.

«Pur avendo un potenziale di crescita, spesso tante pmi italiane fanno fatica a internazionalizzare le attività, e reggere la concorrenza di realtà più grandi e strutturate, a causa dell’assenza di competenze dedicate, di un approccio sistematico e strategico all’internazionalizzazione e della capacità di comunicare la forza del proprio prodotto. Pertanto, il contatto strategico con enti pubblici e privati e operatori specializzati operanti sia in Italia che all’estero è cruciale per le imprese. In generale, la capacità di fare rete è un aspetto fondamentale per le imprese: l’appartenenza a una filiera, assicura una serie di benefici. Per Sace, le aziende che innovano e puntano al rafforzamento della propria filiera registrano una crescita del fatturato superiore di due punti percentuali rispetto a quelle che non investono in questi ambiti. Infine, nell’ampliare il proprio business, l’innovazione rimane cruciale ed è uno dei motori che può rendere le imprese più agili e competitive. Oggi,solo una impresa su tre in Italia investe in innovazione. Tuttavia, vanno tenute in conto sfide importanti come ladisponibilità di risorse finanziariee laccesso a strumenti per la digitalizzazione. Investire in innovazione e nel digitale significa per le imprese non solo rafforzare la propria competitività e agilità operativa nel servire mercati internazionali, ma anche puntare sullo sviluppo e adattamento dei propri prodotti alle varie aree geografiche, diversificando i rischi e ampliando il proprio business. In un momento storico come quello attuale, orientarsi verso l’innovazione e il digitale può aiutare nell’approccio all’internazionalizzazione, dove diventa cruciale scegliere la giusta strategia, nonché comunicare con efficacia il valore distintivo del made in Italy», conclude il Private Leader.

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