Olanda, pensioni sul mercato. Trema la finanza pubblica Ue


Uno spettro si aggira per l’Europa: la riforma delle pensioni in Olanda. Si tratta del Future Pensions Act, entrato in vigore il primo luglio 2023 dopo anni di negoziati tra governo, imprese e sindacati. Una legge che prevede un lungo periodo di transizione, fino al primo gennaio 2028, ma 36 fondi pensione dovranno adeguarsi al nuovo modello di gestione già a partire dal prossimo primo gennaio. Non è una questione tecnica ma un passaggio epocale: fine del sistema a prestazioni definite, universalistico, ma pensioni future legate ai rendimenti di mercato di «conti individuali» dei singoli lavoratori.

UNA SVOLTA che, oltre a ridisegnare il futuro previdenziale di milioni di olandesi, rischia di avere ripercussioni serie sul mercato obbligazionario europeo. In Olanda i fondi pensione gestiscono risparmi colossali, circa 2mila miliardi di euro. Più della metà di tutti i risparmi pensionistici dell’Unione, secondo la Bce. Numeri che danno subito la misura di una grande sproporzione, se si pensa che il paese rappresenta appena il 7% dell’economia dell’eurozona. E che fanno cadere il mito del «paese frugale».

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Celebrata a Bruxelles come campione di rigore, questa nazione di soli 17 milioni di abitanti è semmai la patria del parassitismo finanziario, che prospera non solo grazie alla gestione privata dei contributi sociali ma anche al ruolo di piazza di intermediazione fiscale e speculativa per multinazionali e fondi d’investimento. Un porto franco per utili, royalties, dividendi, che poi vengono spostati in altri paradisi fiscali (Caraibi, Lussemburgo…). La «sobrietà» dei conti pubblici si accompagna a un’altissima dipendenza dalle rendite finanziarie e dalle triangolazioni fiscali, insomma. Le pensioni, dicevamo. Fino a ieri era così: i lavoratori versavano soldi al fondo pensione e, in cambio, ricevevano una pensione garantita basata sugli ultimi stipendi. Per essere sicuri di poterla pagare, i fondi dovevano proteggersi dai rischi dei mercati. Come facevano? Compravano titoli di Stato considerati sicuri – come i Bund tedeschi, Oat francesi, Btp italiani (pochi) – che davano un rendimento stabile.

MA NON BASTAVA: usavano anche contratti complicati chiamati «interest rate swap». In parole semplici, questi contratti servivano a scambiare tassi di interesse: il fondo poteva così guadagnare se i tassi scendevano e proteggersi se salivano. Un’assicurazione. Questo aiutava a coprire le «passività», cioè le pensioni da pagare in futuro. Per fare questi contratti servivano però garanzie, detti «collateral». E cosa usavano? Ancora titoli di Stato sicuri, soprattutto Bund tedeschi. Il risultato era questo: più swap facevano, più titoli dovevano comprare. Così, i fondi olandesi hanno contribuito a sostenere per anni il mercato dei titoli di Stato europei. La riforma pensionistica cambia radicalmente le regole del gioco. Dal modello Db («defined benefit») si passa a quello «defined contribution» (Dc): niente più pensioni garantite, ma assegni legati all’andamento dei mercati. In questo scenario, i fondi non hanno più bisogno di coprirsi allo stesso modo dai rischi. Meno «swap», meno «collateral», meno titoli di Stato, più libertà di fare investimenti ad alto rischio (soprattutto dai «conti» dei più giovani), quindi. E qui sta il punto: se gli olandesi riducono drasticamente queste operazioni, una parte consistente della domanda di titoli europei potrebbe svanire. Peggio ancora se decidessero di vendere massicciamente quelli che hanno in pancia.

GLI EFFETTI SUI RENDIMENTI sarebbero imprevedibili, come sui costi di finanziamento dei debiti pubblici. Ecco perché questa riforma inquieta non solo i pensionati, ma anche i mercati e le stesse istituzioni europee. Da una decisione presa a L’Aia può dipendere il costo del debito pubblico a Berlino, a Roma o a Parigi. Che non è poco, in tempo di dazi, neo-mercantilismo americano, instabilità a livello globale. Non a caso molti analisti, e la stessa banca centrale olandese, parlano di potenziale «instabilità sistemica». Tradotto: la previdenza privata o semi-privata, quando muove capitali di queste dimensioni, diventa un attore geopolitico. Il problema, però, è di fondo. I contributi dei lavoratori, nati per garantire una vecchiaia dignitosa, sono stati trasformati in benzina per i mercati finanziari. Non più un «patto tra generazioni», ma una gigantesca macchina speculativa che scommette sui tassi, sugli spread, sulla volatilità. Sulla vita. Più in generale, la privatizzazione della previdenza non è solo una questione di equità, ma anche un problema di stabilità macroeconomica. Affidare il futuro dei lavoratori ai capricci della finanza non significa solo abbandonarli all’incertezza, ma esporre interi sistemi economici a shock potenzialmente devastanti.



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