Ecco le azioni strategiche per aumentare la competitività




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Il porto di Gioa Tauro (Reggio Calabria) – Ansa

L’economia del mare è un settore strategico per l’Italia. Ha raggiunto un valore totale di 216,7 miliardi di euro – rispetto ai 178,3 del 2024 – di cui 76,6 miliardi di impatto diretto, rappresentando l’11,3% del Pil nazionale rispetto al 10,2% dello scorso anno. Con oltre 230mila imprese e più di un milione di occupati. E con un incremento, nel biennio 2022-2024, del +2% del numero di imprese del comparto. Per ogni euro investito, si arriva mediamente ad attivarne quasi due. In alcune filiere, come la cantieristica navale, il valore del moltiplicatore è molto superiore. Confindustria, unica associazione datoriale nazionale a rappresentare l’intero settore, ha riconosciuto il ruolo chiave dell’economia del mare per lo sviluppo del Paese. E con una delega ad hoc, affidata a Mario Zanetti, ha individuato un nuovo approccio di politica industriale basato su tre driver strategici: potenziare infrastrutture e portualità; modernizzare vettori e flotte; investire nelle persone e nelle competenze.

«L’economia del mare cresce soprattutto nelle regioni del Sud, anche questa è una novità – spiega Nello Musumeci, ministro per la Protezione civile e per le Politiche del mare -. Sono convinto che tutte le regioni, ma in particolare quelle indietro, dal punto di vista socioeconomico, possano utilizzare le otto filiere del mare, quelle che compongono l’economia blu con risultati assolutamente straordinari. Il mare è la carta del mazzo che avevamo, ma che non abbiamo mai giocato. Abbiamo circa 8mila chilometri di coste, però non siamo ancora, da un punto di vista culturale, una nazione marinara, siamo ancora terragni e dobbiamo superare questo limite, a cominciare dai ragazzi delle scuole primarie. Questo perché il Mediterraneo cambia, il mare è tornato centrale anche nell’agenda di governo. Abbiamo istituito per volontà della presidente del Consiglio una struttura ministeriale che non c’era e che mancava da decenni, abbiamo prodotto il piano del mare che è uno strumento di programmazione del quale si avvertiva l’esigenza, stiamo lavorando sul subacqueo».

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Tuttavia, i porti italiani, cruciali per il commercio e il turismo, necessitano di investimenti mirati per modernizzare le infrastrutture, migliorare l’intermodalità e ridurre l’impatto ambientale. L’utilizzo dei fondi Pnrr-Piano nazionale di ripresa e resilienza è essenziale per rendere i porti più competitivi. È inoltre necessario semplificare la governance portuale per superare inefficienze e garantire una gestione più centralizzata e strategica, con partecipazione effettiva degli stakeholder commerciali nella definizione delle scelte strategiche. I porti devono diventare hub energetici, investendo nell’elettrificazione delle banchine e nella creazione di infrastrutture per combustibili alternativi come Lng-Gas naturale liquefatto e idrogeno e lo sviluppo dei biofuel. Tuttavia, la transizione richiede risorse finanziarie adeguate, da reperire attraverso la tassazione e il credito d’imposta. La transizione digitale rappresenta, invece, una leva di crescita imprescindibile ed è necessario digitalizzare i processi autorizzativi e logistici, implementare la connettività 5G e adottare tecnologie avanzate per migliorare efficienza e sicurezza.

Mentre il trasporto marittimo italiano rappresenta un asset strategico per il commercio globale, ma deve affrontare sfide significative. I due pilastri della competitività, Registro Internazionale e Tonnage Tax, non sono più sufficienti. Serve una semplificazione normativa per ridurre la burocrazia e rendere più efficiente il settore. La decarbonizzazione dello shipping deve essere perseguita con un equilibrio tra sostenibilità e competitività. Il raggiungimento degli obiettivi di emissioni dipende dalla disponibilità di nuovi carburanti, oggi ancora limitata. È fondamentale adottare un approccio globale alla transizione energetica, evitando distorsioni di mercato dovute a normative europee disallineate rispetto agli standard internazionali. Per il diporto nautico, la bandiera italiana è poco competitiva a causa dell’eccessiva burocrazia e dei costi elevati, determinando un aumento delle cancellazioni dai registri nazionali. Servono riforme per rilanciare il settore e un quadro normativo chiaro per l’uso di carburanti alternativi e tecnologie innovative. Il settore della pesca, invece, necessita di un rinnovamento della flotta per migliorare sicurezza, sostenibilità ed efficienza. Le politiche europee limitano l’aumento delle licenze, ma il rinnovamento delle imbarcazioni può garantire maggiore competitività senza incrementare lo sforzo di pesca. Infine, sebbene la cantieristica navale italiana sia leader mondiale, sono necessarie politiche industriali mirate per rilanciare il settore e consolidare lo sviluppo competitivo nel panorama mondiale e così anche confermare la leadership tecnologica italiana.

La carenza di manodopera qualificata è una delle principali criticità. Occorre allineare e potenziare gli attuali percorsi formativi alle esigenze del mercato, soprattutto negli Its-Istituti tecnologici superiori e nelle Università. Le competenze digitali e linguistiche sono sempre più richieste, così come figure professionali specializzate nella transizione energetica e nella logistica avanzata. Servono incentivi per le imprese che assumono giovani formati e un maggior dialogo tra istituzioni e settore privato per facilitare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro.

Obiettivi alti, ma con un paradigma sistemico: l’età dei bacini portuali, spesso troppo vecchi per fronteggiare nuove sfide, flotte dislocate e un sistema logistico portuale non adeguato. Non abbiamo nessun bacino che supera i 400 metri, che oggi è la dimensione delle grandi navi. I bacini sono stati costruiti tutti almeno 90 anni fa: è più di mezzo secolo che di fatto non ristrutturiamo il sistema cantieristico navale. Se le merci arrivano prevalentemente via mare, anche il nostro sistema logistico portuale deve riflettere questa concezione, mentre oggi il sistema italiano fa meno container del porto di Rotterdam. L’altro tema fondamentale è il mantenimento delle flotte. L’85% dei bacini di costruzione italiana nel mondo sono nel Sud-Est asiatico, il 7% in Europa. Di questo 7%, un 40% è sul territorio nazionale. Per anni non abbiamo rinnovato la situazione cantieristica, perché l’Europa ha vietato che i soldi dei governi possano essere investiti per fare salti tecnologici sull’innovazione nei cantieri. Quindi oggi costruiamo una nave più o meno come si costruiva negli anni ‘50, mentre gli altri Paesi costruiscono una nave automatizzata all’80%, noi ci mettiamo due anni a fare banalmente una nave da crociera, l’unico prodotto remunerativo in Italia perché di una filiera di qualità. In questo modo si ha una grande rendita sulla commessa, ma sul porta contenitori o su un traghetto, dove di fatto quello che conta è il ferro, la tecnologia, ma soprattutto i tempi di realizzazione, siamo troppo lenti, i prezzi sono troppo alti e quindi alla fine i competitor in un anno producono nello stesso cantiere 18 traghetti, mentre l’Italia ci mette un anno a costruire un traghetto.

In questo scenario il Piano Mattei rappresenta un punto di riferimento operativo, economico, culturale per mantenere la grande tradizione italiana nelle relazioni marittime, ma anche strategico, se si considerano le evoluzioni storiche e geopolitiche dovute ai conflitti vigenti. Parlando di risorse e approvvigionamenti, importante anche il ruolo che l’Africa avrà per l’Italia. La maggior parte delle risorse, il 60% di quelle energetiche tra idrocarburi, future energie alternative, minerali che servono alla moderna industria occidentale, terre rare, manodopera, giovani, sono tutte in Africa, che rappresenta chiaramente la sfida globale del futuro in termini di sviluppo e di geopolitica.

A mutare non sono solo le relazioni internazionali, ma anche quelle tra i player di settore e gli stakeholder, incidendo anche sulla supply chain e la logistica globale. Stiamo assistendo a un cambio di paradigma europeo a livello di infrastrutture. È cambiato lo scenario di riferimento: contano più le relazioni tra le imprese, le autorità locali che una pianificazione a livello nazionale. Purtroppo, in Italia utilizziamo male le infrastrutture, perché particolarmente vecchie, soprattutto quando si parla di porti industriali. Per esempio abbiamo alcuni porti, come quelli di Bari e Salerno, che non sono più raggiungibili dalla ferrovia.





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