Ambizioni SCO: non solo difesa


Il vertice dell’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai (SCO) a Tianjin ha offerto l’occasione per la Cina di rilanciare i propri messaggi politici: “dobbiamo supportare una transizione egualitaria e ordinata verso un mondo multipolare, promuovendo un sistema più equo di governance globale”, ha dichiarato il presidente Xi di fronte agli invitati. Un messaggio ancor più evidente dopo la parata a Pechino, in cui il mondo ha potuto saggiare le ambizioni delle forze armate cinesi.

Se il nemico è comune – l’ordine globale emerso dalla Seconda guerra mondiale e dalla fine della Guerra fredda –, i margini di cooperazione militare ed economica dei partecipanti al meeting della SCO paiono ancora limitati. A sottolinearlo è in effetti stato lo stesso Xi: “dovremmo mettere da parte le nostre differenze e accelerare la cooperazione” in campi come l’energia e le infrastrutture.

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Oggi l’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai include dieci Stati membri. Cinque di loro negli ultimi anni si sono scontrati militarmente, seppur a diverse intensità: India e Pakistan si sono bombardati per giorni, mentre Cina-India e Kirghizistan-Tajikistan si sono ripetutamente scontrati per dispute sui confini. La competizione economica è altrettanto evidente: New Delhi e Pechino si contendono la supremazia tecnologica – l’India tenta di sganciarsi dalle catene del valore cinesi – e l’influenza regionale, anche attraverso iniziative infrastrutturali in concorrenza tra loro (la Belt and Road Initiative da una parte e il Corridoio economico India-Medio Oriente-Europa dall’altra). Anche Russia e Cina sono storici e potenziali rivali per l’influenza sul continente asiatico, per quanto oggi alleati tattici contro il blocco occidentale.

I dati mostrano l’evidente immaturità economica dell’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai. L’India impone sui prodotti cinesi dazi superiori a quelli pagati dagli importatori di merci americane ed europee. Lo stesso fa – sorprendentemente – la Russia con i prodotti in arrivo dall’India, dalla Cina e dal Kazakistan. E ciò vale anche per Kazakistan e Iran. Non sorprende dunque che l’interscambio commerciale tra i dieci Stati membri sia ancora piuttosto ridotto. La Cina vanta scambi con gli altri nove partecipanti pari a 512,4 miliardi di dollari nel 2024, meno di quanto scambiato nello stesso anno tra cinesi e americani. Per avere un ordine di paragone, l’interscambio di merci tra USA e altri Paesi membri del G7 è stato pari a quasi 1.600 miliardi di dollari.

Anche sul mercato valutario le difficoltà della SCO sono evidenti. Nonostante l’obiettivo dichiarato di ridurre la dipendenza dalle valute occidentali, quasi la metà delle transazioni globali resta denominata in dollari. Un altro 22% avviene in euro, il 6,5% in sterline britanniche e solo il 4,7% in yuan cinesi. Al meeting di domenica alcuni membri – Iran e Bielorussia – hanno proposto l’introduzione di una valuta comune per favorire gli scambi commerciali. Una soluzione avanzata, non a caso, da Paesi stretti nella morsa delle sanzioni internazionali. Come accaduto nel formato BRICS, al lancio di una valuta comune si oppone l’India, che teme un’eccessiva influenza economica cinese. Per ora gli annunci si sono fermati al lancio di una banca per lo sviluppo regionale, che acceleri la cooperazione energetica. A Tianjin, dietro la vetrina delle photo opportunity e i proclami di unità, resta una frattura evidente: la mancanza di fiducia reciproca.



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