In meno di un anno, le imprese italiane hanno compiuto un deciso salto di maturità nell’utilizzo dell’intelligenza artificiale, portando l’adozione dal 12% del 2024 al 46% del 2025. Si tratta di un progresso del 34% che ridisegna il panorama competitivo e accende una nuova corsa alle competenze digitali.
Un balzo in avanti senza precedenti
La seconda edizione del Italy AI Barometer ha coinvolto 4.900 professionisti di nove Paesi europei, di cui 539 attivi sul mercato italiano, restituendo un quadro eloquente. Nel 2024 appena il 12% delle aziende dichiarava di impiegare soluzioni di intelligenza artificiale nei processi quotidiani; dodici mesi dopo, la quota è balzata al 46%. Con un incremento del 34% in un solo anno, la velocità di adozione italiana risulta fra le più elevate in Europa, segnale di una spinta tecnologica che le organizzazioni non vogliono lasciarsi sfuggire.
Tra i motori di questo avanzamento spiccano la maggiore accessibilità delle piattaforme as-a-service, la diminuzione dei costi di implementazione e, soprattutto, il desiderio di potenziare aree strategiche quali logistica, data analytics e customer experience. Gli intervistati parlano di un’urgenza concreta: chi non integra l’AI nei processi rischia un rapido arretramento competitivo, specialmente nei settori a più alta pressione concorrenziale. Non si tratta più di sperimentazioni isolate, ma di innesti ormai strutturali nei sistemi aziendali.
Benefici già tangibili per il top management
Il 52% dei componenti del vertice aziendale dichiara di avere osservato vantaggi misurabili grazie all’intelligenza artificiale. Le aree che registrano i maggiori risparmi riguardano la riduzione dei costi operativi, l’ottimizzazione della supply chain e l’automazione delle mansioni ripetitive. Dal lato dei ricavi, l’aumento dei profitti viene ricondotto alla capacità dell’AI di personalizzare l’offerta e di calibrare le strategie di pricing in tempo reale, liberando risorse da reinvestire in ricerca e sviluppo avanzato.
In questo contesto, le parole di Giuseppe Santonato, responsabile AI per l’area Europe West, risuonano come un’esortazione. «L’intelligenza artificiale non è più una promessa, è una realtà che produce valore tangibile per le imprese», osserva il manager, sottolineando come il vero salto di qualità richieda una governance chiara, investimenti continui in competenze e un modello di accesso inclusivo. Solo così, a suo avviso, la tecnologia potrà diventare una leva sostenibile di trasformazione per l’intero sistema produttivo.
La sfida della cultura e dell’etica
Se nei piani alti la tecnologia convince, a livello operativo persiste un divario di conoscenza potenzialmente frenante. Il 74% dei manager afferma di conoscere il framework etico che regola l’utilizzo dell’AI, ma la percentuale scende al 47% tra i dipendenti. Questa disomogeneità alimenta timori e resistenze, soprattutto quando l’AI ridisegna ruoli e responsabilità consolidati. Colmare la distanza culturale diventa così una priorità strategica, pena il rallentamento dei progetti più ambiziosi.
Per affrontare la questione, molte aziende stanno introducendo linee guida accessibili, workshop e sessioni di mentoring dedicate a illustrare responsabilità, limiti e opportunità dell’automazione intelligente. Il dialogo aperto emerge come l’elemento più efficace per trasformare un potenziale ostacolo in fattore abilitante. Secondo gli analisti, soltanto un clima di fiducia diffusa permetterà di sfruttare l’AI come leva di crescita sostenibile, evitando rischi reputazionali o criticità nella gestione dei dati sensibili.
Formazione, il primato italiano in Europa
Sorprende in particolare il dato relativo alla preparazione individuale: il 64% dei lavoratori italiani sta investendo, autonomamente o tramite percorsi aziendali, nella propria formazione sull’AI, collocando il Paese al vertice europeo davanti alla Spagna. Il fenomeno testimonia un diffuso desiderio di aggiornamento e una crescente consapevolezza che le competenze digitali saranno decisive per la futura occupabilità. L’apprendimento continuo diventa così il vero acceleratore della competitività nazionale.
Le imprese, dal canto loro, iniziano a supportare questa spinta con programmi mirati, voucher formativi e collaborazioni con centri di eccellenza. Le testimonianze raccolte mostrano come i reparti HR abbiano inserito indicatori di skill obsolescence nei loro cruscotti, così da individuare i gap e pianificare interventi puntuali. Il percorso è ancora lungo, ma l’inclinazione all’aggiornamento costante sembra ormai radicata, suggerendo un futuro in cui tecnologia e capitale umano si evolvono di pari passo.
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