Il tramonto della ‘filosofia Cuccia’


Il cedimento del ‘fortino’ Mediobanca può aprire finalmente ad una nuova stagione del capitalismo economico-finanziario italiano.

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1. Uno tsunami economico-finanziario sta accadendo in Italia per il cedimento del fortino Mediobanca a causa delle iniziative di un numero crescente di soci che si sono disallineati dalla gestione dell’amministratore Aberto Nagel, nonché, soprattutto, a causa dell’Offerta Pubblica di Scambio (OPS) lanciata su Mediobanca dalla più antica banca italiana, il Monte dei Paschi di Siena, integralmente rinnovata dopo il tracollo della precedente gestione.

2. Mediobanca, dopo un periodo in cui contribuì positivamente alla stabilizzazione del sistema economico italiano, uscito sconvolto dagli effetti della guerra mondiale, si avviò successivamente, sotto la guida di Enrico Cuccia e dei suoi successori Vincenzo Maranghi e Alberto Nagel, lungo una strada conservatrice diretta a garantire gli equilibri politico-economico-finanziari-industriali dei capitalisti italiani tramite un metodo singolare.

Tale metodo era imperniato sul garantire che i capitalisti più ricchi e potenti, proprietari delle aziende strategiche del paese, controllassero i loro gruppi societari tramite una rete di relazioni di potere tessuta su traffici di influenze e conflitti di interesse macroscopici, sollevandoli però dagli obblighi propri dei capitalisti in un’economia di mercato: di investire, cioè, i capitali ricavati dai profitti industriali in attività tecnologicamente più avanzate, tali da mantenere le aziende competitive sui mercati. Non si vuol qui mettere in dubbio che, in un’ottica libera di economia di mercato, una parte dei profitti di impresa sia prudenzialmente distribuita in dividendi per i soci. Ma almeno una parte deve essere impiegata in investimenti produttivi o, quantomeno, tenuta a garanzia del patrimonio netto della società.

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3. Si dice che Enrico Cuccia avrebbe espresso come adagio della sua ‘filosofia finanziaria’ un beffardo: “Articolo Quinto: chi ha i soldi ha vinto”. Peccato che questo adagio trascurasse l’art. 41, ultimo comma della Costituzione italiana, secondo cui spetta alla legge dello Stato “determinare i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata a fini sociali e ambientali”.

La filosofia pratica adottata non è stata del tutto salutare per l’economia italiana, giacché ha causato il dissesto progressivo dei grandi complessi industriali; la loro messa in liquidazione; la vendita di asset industriali di rilievo strategico a fondi esteri di equity; la delocalizzazione delle produzioni; la crescita della disoccupazione o della sottoccupazione; la dilatazione enorme del debito pubblico.

All’esito di questo processo, che ha conosciuto la sua fase più distruttiva di ricchezza nella liquidazione dell’immenso patrimonio industriale già in mano pubblica a favore di privati, che lo hanno successivamente dissipato[1] si sono verificati due fattori di indebolimento economico dell’intero sistema nazionale: da un lato, il ristagno, se non la decrescita delle retribuzioni del lavoro dipendente e, dall’altro, l’impoverimento economico della classe media e piccolo borghese del paese.

4. L’adagio di Cuccia corrisponde fattualmente a innumerevoli situazioni storiche. Esso però vìola il principio fondamentale per cui l’economia di mercato è stata immaginata dai suoi teorici e per cui dovrebbe funzionare come fattore di sviluppo economico e di progresso civile.

La libertà economica, che sta a base dell’economia di mercato, è una parte della libertà umana; dunque, la libertà di intrapresa e la concorrenza, frutto della libertà, dovrebbero cooperare alla massima e ottima produzione con beneficio collettivo. Quando però questa libertà diventa arbitrio irragionevole e il capitalista non investe più almeno una parte dei ricavi societari in nuove attività, trattenendo invece per sé tutti gli utili, allora il sistema del libero mercato e della concorrenza può produrre effetti sinistri.

Marco Minghetti, pur convinto liberista, che fu capo del Governo nei primi ministeri italiani dell’Italia unita, mise in luce nella sua famosa opera Della economia pubblica e delle sue attinenze con la morale e con il diritto i grandi pericoli di un mercato lasciato sotto l’egemonia dell’ “Articolo Quinto” di Cuccia.

Facendosi carico delle critiche che i movimenti socialista e cattolico muovevano alle strategie di sviluppo economico intraprese dall’alta borghesia italiana nei primi decenni dell’Italia liberale, Minghetti mise in guardia i suoi contemporanei dai rischi di un capitalismo predatorio. Sono ancora oggi attuali le sue parole di denuncia nei confronti di fenomeni: · quali la concorrenza senza regole, che accresce artificialmente i consumi e abbassa contingentemente i prezzi per liberarsi degli altri soggetti economici; · quali l’accumulazione di enormi capitali in poche mani, con rovina delle fortune mediane e la creazione di una situazione che gli economisti di area socialista e cattolica definivano all’epoca di pauperismo dei ceti popolari[2].

4. Tenendo conto, secondo il linguaggio di Minghetti, “delle attinenze con la morale e con il diritto” dell’economia pubblica, sarebbe allora stato giusto e più conveniente nell’interesse del paese che si fosse  agito, nei decenni dell’egemonia Mediobanca e delle fallimentari privatizzazioni, alla luce di una massima diversa da quella attribuita a Cuccia.

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La massima potrebbe suonare così: “anche se molto spesso vince chi pensa e agisce soltanto per incrementare il proprio personale patrimonio, è anche vero che una vittoria, non solo del singolo, ma della collettività, si ottiene quando, distribuiti i dividendi, almeno una parte dei profitti di impresa sono impiegati in ulteriori attività produttive, i cui frutti favoriscano il progresso economico,  mantengano in bonis le società commerciali, non deprimano l’occupazione e migliorino le condizioni di vita della collettività”.

Purtroppo la filosofia di Mediobanca ha favorito per decenni l’egemonia di capitalisti che hanno acquisito e conservato molti capitali per sé, riuscendo a creare veri e propri imperi finanziari e mediatici, ma che si sono mostrati completamente indisponibili a investire capitali nelle loro stesse imprese. Anzi, quando questi capitalisti hanno addirittura acquistato imprese pubbliche in difficoltà finanziaria, anche se in possesso di potenzialità immense di sviluppo in virtù di un know how di altissimo livello, le hanno acquistate a debito, con il marchingegno di origine anglosassone del leveraged by out, facendo ricadere sulle nuove compagini – le famose newco – il peso quasi integrale dell’intera esposizione finanziaria[3]. L’esito di questi tourbillons ha richiesto frequentemente l’intervento ‘a salvataggio’ dello Stato ovvero di società di equity internazionali, interessate ovviamente a una temporanea rimessa in sesto dei conti, grazie a licenziamenti in massa e alla riduzione delle produzioni, e con la successiva  rivendita profittevole del complesso aziendale ad altri soggetti economici. Talora, poi, le strutture risanate sono rimaste in vita soltanto quali macchine per dividendi da assegnare ai sottoscrittori dei fondi.

5. Se il fortino Mediobanca dovesse effettivamente cadere – e ciò è possibile perché in questo momento i cosiddetti ‘mercati’ sono prudenti nel muovere guerra alle iniziative di capitalisti che impegnano soldi veri; perché le istituzione dell’UE e i governi di Francia e Germania sono alle prese con gravi problemi economico-finanziari interni; perché l’attuale Governo italiano mostra più capacità di resistenza che in passato alla preponderanza degli interessi dei paesi forti dell’UE – allora è evidente il cambiamento di scenario, che consentirebbe all’Italia di intraprendere un corso nuovo di sviluppo economico, accompagnato dalla reviviscenza della classe media; dal lancio di nuove imprese produttive; dal recupero di livelli salariali adeguati alla crescita del costo della vita; dalla cooperazione economica  leale con i paesi del Mediterraneo e dell’Africa.

Un recente intervento del Ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti al meeting di Rimini ha sollecitato in effetti, lungo la linea sopra descritta, il sistema bancario a tradurre le migliori condizioni attuali in “benefici concreti in favore delle famiglie”[4] e gli stessi fondi pensione a indirizzare le ingenti risorse raccolte “più al sistema Italia che all’estero, in investimenti infrastrutturali di lungo periodo che diano un rendimento sicuro, non speculativo”[5].

Ma il cambiamento di scenario sarebbe meramente apparente se i capitalisti, che hanno sino a ora mostrato un certo coraggio nell’impegnare risorse proprie nell’assedio al fortino Mediobanca, tornassero ai metodi precedenti e non usassero il loro potere effettivo per ridare slancio all’economia del paese.

6. Oltre all’auspicio che i capitalisti e, più in generale, gli imprenditori si rendano conto: · che l’assioma attribuito a Cuccia, pur risultando effettivo in una serie innumerevoli di casi, è intrinsecamente falso, perché contrario ai fini della persona umana, e: · che anch’essi possono gustare un poco di felicità su questa terra soltanto a condizione che il loro ingegno, le loro fatiche e il loro denaro si espandano anche a vantaggio dell’intera collettività, deve soprattutto formularsi un monito al Governo, ai suoi rappresentanti, a tutte le parti che lo sostengono e anche alle forze ragionevoli delle opposizioni.

Il monito consiste nell’affermare che esiste un dovere delle istituzioni pubbliche di imporre ai soggetti economici il rispetto del principio, disatteso per troppi anni, statuito dall’art. 41, ultimo capoverso della Costituzione.

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I cosiddetti ‘poteri forti’ sono ancora fortissimi, anche se in questo momento patiscono delle sofferenze. La loro rivincita, supportata eventualmente da iniziative interdittive della giurisprudenza, internazionale, europea o interna, o di organi ‘indipendenti’, sarebbe contraria al bene del paese: le difese a tutela dell’ordine pubblico economico vanno pensate e anticipate con prudenza, intelligenza e fermezza.

Mauro Ronco


[1] Per l’esame di questo processo nel quadro del diritto penale dell’economia cfr. M. Ronco, Fondamenti costituzionali del diritto penale dell’economia, in E. M. Ambrosetti, E. Mezzetti M. Ronco (a cura di), Diritto penale dell’impresa, Bologna, 2022, 1-39.

[2] M. Minghetti, Della economia pubblica e delle sue attinenze con la morale e con il diritto, Firenze,1868.

[3] Emblematico fu il caso della privatizzazione di Telecom in cui venne oltrepassata di gran lunga la soglia della decenza economica, giuridica e morale. Si riporta il seguente breve commento al complesso di operazioni compiute: “Il primo passo fu la decisione nel 1997 del governo guidato da Carlo Azeglio Ciampi di privatizzare Telecom, società a controllo pubblico che costituiva un gioiello economico di primordine, competitore a livello internazionale in un settore caratterizzato da uno sviluppo innovativo travolgente.. Per questo motivo aveva bisogno di un piano industriale che la rilanciasse nell’economia delle telecomunicazioni, all’epoca in una fase di trasformazione per la imponente diffusione della telefonia mobile. I capitalisti privati, che assunsero il controllo della società con l’acquisto di quote minime del capitale sociale, erano interessati soltanto agli aspetti finanziari, per fruire della forte redditività della società. Non elaborarono alcun progetto industriale, abbandonando presto il campo per lasciare spazio a una serie di operazioni finanziarie devastanti./ Il passo decisivo fu il lancio dell’OPA nel febbraio 1999 con un leveraged by out senza fusione. La scatola semivuota degli imprenditori guidati da Roberto Colaninno comprò a debito Telecom facendo ricadere il rimborso agli istituti finanziari sul patrimonio della società. Il governo non frappose alcun ostacolo, nonostante il Presidente di Telecom avesse presentato un piano alternativo all’OPA. Il Financial Times definì l’operazione di conversione delle azioni “una rapina in pieno giorno”. Il risultato dell’intera operazione sul piano economico fu: “Un saccheggio da 60 miliardi, così i capitalisti senza capitali hanno distrutto un intero settore”. La somma indicata corrisponde alle risorse “sottratte all’ex monopolista telefonico dalle varie compagini azionarie che si sono succedute. Un immenso spreco di denaro che altrimenti avrebbe potuto scrivere una storia diversa per l’intero sistema Paese”. / L’operazione fu compiuta in spregio del diritto vigente in quanto integrò in modo palese la violazione degli artt. 2357 e 2630 del codice civile. Una volta che il business finanziario fu concluso il legislatore del 2003 abrogò il divieto previsto dall’art. 2357 e cancellò il presidio penalistico di cui all’art. 2630”, così  M. Ronco, in Diritto penale dell’impresa, cit., 16-17.

[4] G. Giorgetti, Corriere della Sera, 24 agosto 2025.

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[5] Ibidem.





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