La complessa costellazione globale di investimenti infrastrutturali promossa da attori economici cinesi, è stata introdotta come direttrice per l’espansione dell’influenza internazionale della Cina sin dalla “Go Out Policy” 走出去 del 1999. La declinazione di questo impegno nel dominio marittimo e portuale è stata riaffermata nel disegno strategico della “Twenty-First Century Maritime Silk Road” emesso nel 2013. Occorre valutare gli esiti dello sforzo ultradecennale, intersecandoli alle linee guida strategiche emanate dagli apparati navali della Repubblica Popolare, le quali riflettono a loro volta l’importanza crescente attribuita al dominio marittimo sin dal “white paper” sulla strategia militare cinese del 2015.
Il modello di modernizzazione e sviluppo economico avviato nella Repubblica Popolare Cinese (RPC) dagli anni ’80 in avanti, ha imposto a una cultura storicamente caratterizzata da un pensiero strategico di tipo continentale, la necessità di espandere ad aree marittime più o meno contigue tanto gli interessi commerciali cinesi, quanto la difesa di essi .
Infatti, la dipendenza dalle esportazioni manifatturiere e dalle importazioni energetiche, principalmente dal Medio Oriente, ha elevato a imperativo strategico l’estensione del conclamato assunto della “difesa attiva”, finalizzata alla protezione degli interessi sovrani cinesi nell’area che nella letteratura strategica cinese prende il nome di “due oceani”.
L’area dei due oceani è caratterizzata come un enorme quadrante comprendente Oceano Pacifico (nello specifico, Mar Cinese Meridionale) e Oceano Indiano. Qui si sviluppa la principale linea di comunicazione marittima (SLOC, Sea Line of Communication), comunemente detta lifeline 生命线 cinese, con al suo termine da un capo lo Stretto di Malacca e dall’altro i due stretti di Bab-el-Mandeb e Hormuz.
Questi sono i colli di bottiglia fondamentali per la sopravvivenza del modello produttivo cinese, un blocco di essi da parte di un’alleanza contenitiva a guida americana comporterebbe l’interruzione del flusso di risorse energetiche in entrata e di quello di beni manifatturieri in uscita. Infatti, a livello di sicurezza energetica, l’80% delle importazioni di petrolio e il 13% di quelle di gas naturale verso la RPC passa dall’Oceano Indiano ed entra nel Mar Cinese Meridionale dallo Stretto di Malacca. A livello produttivo, la RPC ha dimostrato di essere ancora dipendente dalla manifattura da esportazione: secondo gli ultimi dati della World Bank risalenti al 2023, le esportazioni contano per un 19,7% del PIL cinese. In tutto, il commercio internazionale ammonta al 38% del PIL totale. Secondo stime delle Nazioni Unite, l’80% del commercio di beni cinese avviene via mare. Questo dato è rivisto al rialzo in discorsi ufficiali di Xi Jinping, in cui il livello è posto a 90% del totale.
Di conseguenza, il governo cinese ha avviato una massiccia campagna di investimenti infrastrutturali per accerchiare, tramite le rotte terrene della Belt and Road Initiative, e tutelare la SLOC citata. Per quest’ultima funzione, occorre analizzare la relazione tra gli investimenti portuali cinesi e il concetto strategico cinese di strategic strong points 战略支点.
Attori coinvolti e localizzazione geografica
Tra il 2010 e il 2019, compagnie cinesi hanno investito circa $11miliardi in porti d’oltremare. In tutto, sono 129 i porti sede di investimenti cinesi, inseriti nel framework della Maritime Silk Road (MSR), di cui 115 sono ad oggi attivi.
I ruoli giocati da tali attori possono essere vari: ad aziende cinesi può essere appaltato l’intero processo di progettazione, finanziamento, costruzione e gestione del porto. Oppure, il controllo cinese può limitarsi a singoli terminal portuali. In altri casi, compagnie cinesi intervengono nell’acquisizione di terminal o interi porti già in funzione. Ad oggi, sono 17 i progetti portuali a maggioranza cinese mentre entità cinesi detengono una partecipazione nell’affitto o concessione di almeno un terminal in 95 porti globali.
Spesso grandi imprese cinesi a partecipazione statale (SOE) come COSCO Shipping Ports, China Merchants Ports (CMP) o China Communications Construction Company Limited (CCCC) vincono appalti indetti da paesi esteri e finanziati con fondi cinesi, per poi subappaltare specifiche parti del progetto a propri sussidiari come la China Harbor Engineering Company (CHEC). Tutte le SOE citate sono coordinate dalla State-Owned Assets Supervision and Administration Commission (SASAC), posta direttamente alle dipendenze del Consiglio di Stato della RPC.
Tuttavia, nello schema strategico cinese sono presenti anche attori privi di partecipazioni statali. Tra questi spicca la CK Hutchinson, con sede legale ad Hong Kong. La nuova legislazione in tema di sicurezza nazionale, emanata nella RPC nel 2015 e ad Hong Kong nel 2020, unitamente al recente caso di ingerenza da parte di Pechino nel contratto stipulato tra la CK Hutchinson e il consorzio guidato dall’americana BlackRock e dal colosso europeo MSC, lascia pochi dubbi sul grado di controllo strategico esercitato dalla dirigenza politica cinese sull’operato del gruppo portuale fondato da Li Ka-shing. Inoltre, il governo della RPC riesce a manipolare attori simili, sia mediante la prospettiva di lauti profitti ma soprattutto attraverso un robusto impianto sussidiario statale. I sussidi assicurati da meccanismi di credito governativi a compagnie portuali o di navigazione cinesi sono ammontati a $132 miliardi nel solo periodo dal 2010 al 2018, particolarmente attivo a livello di allocazione di investimenti portuali.
SOE o attori privati cinesi detengono partecipazioni attive in 78 porti in 32 paesi africani, un terzo dei porti commerciali del continente. In confronto, nazioni asiatiche ospitano 24 porti con partecipazioni attive cinesi mentre solo 10 di questi sono localizzati in America Latina e nei Caraibi (LAC). I restanti 17 progetti portuali sono disseminati sulle coste europee e turche.
Questo evidenzia l’efficacia dello stratagemma persuasivo cinese che, in cambio dell’accesso al commercio globale via mare garantito al paese ospite, ottiene il controllo su infrastrutture portuali chiave. Dall’analisi dei flussi di merci in transito dai terminal portuali operati da compagnie cinesi, emerge la volontà, da parte dei paesi ospitanti, di beneficiare dell’aumento nel volume delle esportazioni verso la Cina. Infatti, il flusso di beni in uscita dai porti verso la madrepatria cinese eccede quello delle importazioni dalla Cina nella gran parte dei casi analizzati. La crescita nel volume di scambio risulta amplificata se ad attori cinesi è arrogato il diritto di operare tutti i terminal all’interno di un’infrastruttura portuale. Un simile prospetto sembra compensare, agli occhi degli Stati ospitanti, il calo nel volume di esportazione verso paesi al di fuori della RPC, che si registra nei porti a maggioranza operativa cinese.
Investimenti strategici sulla “lifeline” cinese
In particolare, questo articolo vuole mettere in luce gli investimenti strategici volti a rafforzare la proiezione della Marina dell’Esercito Popolare di Liberazione (PLAN) nei “due oceani”, con l’obiettivo di disinnescare il potenziale contenitivo di un’alleanza a guida americana in caso di crisi. Ciò avviene attraverso il sistema surrettizio degli strategic strong points 战略支点: una modalità di proiezione di potenza latente, posta a protezione di SLOC vitali per la sopravvivenza della RPC.
L’intero modus operandi sembra agire nel rispetto di tali direttrici. Infatti, più di metà degli investimenti portuali cinesi si localizzano a ridosso di SLOC dall’importanza esistenziale. Il 55% di questi dista meno di 480 miglia nautiche da un collo di bottiglia.
La concentrazione aumenta ulteriormente lungo la shengmingxian 生命线: sono ben 36 i porti con partecipazioni attive cinesi lungo la linea che collega gli stretti di Malacca, Hormuz e Bab-el-Mandeb.
Alcuni di questi, risultano icastici per il metodo di acquisizione, percentuale di controllo acquisito e posizione strategica. È il caso del porto di Hambantota in Sri Lanka: finanziato con un prestito di $1,1miliardi dalla Exim Bank cinese, è stato poi ceduto in concessione per 99 anni a un’azienda cinese, a causa dell’incapacità del governo di Colombo di ripagare il debito.
Un altro porto identificato dagli strateghi della PLAN come importante strategic strongpoint è quello di Gwadar, nella regione pakistana del Balochistan, a soli 400km ad Est dello Stretto di Hormuz. Gwadar è stato posto come cuneo chiave e punto d’arrivo del China-Pakistan Economic Corridor 中巴经济走廊 un network infrastrutturale costituito da strade, ferrovie e oleodotti, avente come punto d’origine la città di Kashgar, in Xinjiang.
A causa dell’ingente indebitamento del Pakistan nei confronti della RPC ($23miliardi), si può argomentare a favore di un esteso controllo cinese sul porto di Gwadar, in funzione di accerchiamento di Malacca nella strategia di “uscita dal mare” 出海口. Il progetto è minacciato dal terrorismo indipendentista Baloch, attivo nell’area contro attori cinesi.
La stessa logica può essere applicata al porto di Kyaukphyu in Myanmar, affacciato sul Golfo del Bengala e collegato con lo Yunnan cinese dal China-Myanmar Economic Corridor, di cui entità cinesi detengono quote per il 70%. Il progetto risulta oggi compromesso dalla guerra civile contro la giunta militare.
Spostandosi nelle aree ad elevata importanza geostrategica per il controllo del Canale di Suez e dello Stretto di Bab-el-Mandeb, la prima base militare d’oltremare della PLAN a Djibouti costituisce la stella alfa di una estesa costellazione comprendente una pluralità di infrastrutture portuali in Arabia Saudita, Eritrea, Sudan, imperniata sul solido legame costruito con l’Egitto. Infatti, COSCO ha partecipazioni attive nei due porti di Ain Sokhna ed East Port Said, ai due capi del Canale di Suez. Inoltre, CK Hutchinson ha effettuato investimenti strategici in alcuni porti situati sulla costa mediterranea dell’Egitto. Oltre alla gestione operativa dei due porti di Alessandria – da cui passa il 60% del commercio estero egiziano – e di El Dekheila, il conglomerato di Hong Kong ha attivato un sodalizio con la Marina egiziana, accaparrandosi la concessione della base navale di Abu Qir per 38 anni.
Il Canale di Suez costituisce il principale collegamento tra la RPC e il continente europeo, terza destinazione per volume di beni esportati da Pechino. Di conseguenza, il Mediterraneo è da considerarsi come quadrante vitale per la protezione degli interessi cinesi d’oltremare, come confermato dagli investimenti portuali in Grecia (Pireo, Tessalonica), Algeria (Annada, Skikda, Bethioua, Arzew), Marocco (Casablanca, Tangeri) e Spagna (Valencia), seppur di tipologia e portata diverse tra loro.
Spostandosi verso il Golfo Persico, è opportuno segnalare il contratto di costruzione e gestione ottenuto da COSCO per un terminal container presso il porto di Khalifa, negli UAE. I lavori sono stati temporaneamente interrotti nel 2021 a causa di un report dell’intelligence americana, che mostrava surrettizi tentativi di militarizzazione del sito da parte cinese.
Nello stesso quadrante, il porto di Umm Qasr – unico porto d’altura in Iraq, è stato acquisito dalla China Merchants Ports.
Infine, si segnalano le numerose infrastrutture portuali finanziate, realizzate o operate da entità cinesi sulla sponda orientale del continente africano. In particolare, il porto di Dar es Salaam (Tanzania) è nevralgico per il commercio di risorse provenienti dai paesi landlocked di Zambia, Burundi, Rwanda, DRC e Zimbabwe. Discorso analogo può essere fatto per il porto di Mombasa, in Kenya. In entrambi i paesi, gli investimenti portuali costituiscono l’ultimo tassello in un elaborato programma di investimenti infrastrutturali per il collegamento di siti estrattivi con le principali rotte commerciali via mare.
Potenziale bellicizzazione della strategia portuale cinese
Il motivo per cui gli investimenti infrastrutturali delineati costituiscono rischi securitari realistici è la progressiva porizzazione del confine fra ambito civile e militare nel contesto della auto-proclamata grand strategy nazionale della jun-min ronghe 军民融合, canonicamente tradotta come “fusione militare-civile”. Di seguito, sono sintetizzate schematicamente le potenziali direttrici di implementazione di tale strategia dual-use:
- Deterioramento, riduzione ed eliminazione dell’accesso al commercio globale via mare di un attore ostile, sfruttando le prerogative di gestione dei terminal portuali. Infatti, circa metà dei porti container più frequentati al mondo – all’infuori di quelli cinesi – sono caratterizzati dalla partecipazione di SOE o attori privati cinesi.
- Furto di informazioni sul traffico marittimo di beni strategici e trasporti militari, facilitato dal coinvolgimento di attori civili cinesi, reso possibile dalle leggi sulla sicurezza nazionale del 2015 (Repubblica Popolare Cinese) e del 2020 (Hong Kong). Queste normative impongono a imprese e organizzazioni cinesi di collaborare con le autorità, raccogliendo dati su soggetti esteri rilevanti per la sicurezza nazionale. Il contributo delle entità civili allo spionaggio statale è potenziato da software smart ports, in particolare dalla piattaforma LOGINK, che centralizza informazioni sul trasporto marittimo. La raccolta di dati sensibili su rotte, carichi e attività commerciali rappresenta un rischio strategico rilevante, in particolare per gli Stati Uniti.
- Trasformazione dei porti d’oltremare in strategic strong points per la proiezione di hard power cinese. Questo potrebbe seguire tre direttrici di implementazione. Una opzione precipuamente innestata nella strategia di “fusione militare-civile” consiste nel convogliare imbarcazioni civili verso ruoli di trasporto e rifornimento in missioni di dispiegamento della PLAN in mari lontani. A tal fine, il governo della RPC ha promulgato normative richiedenti la costruzione di varie tipologie di imbarcazioni civili – tra cui navi roll-on/roll-off, petroliere e portacontainer – seguendo specifiche militari. Un approccio più esplicitamente coercitivo consisterebbe nell’uso dei porti come basi militari d’oltremare. Sebbene l’esempio emblematico di Djibouti, l’attività della PLAN – in termini di scali portuali e operazioni congiunte che coinvolgono numerosi porti menzionati – e le indicazioni provenienti dall’intelligence americana suggeriscano la praticabilità di tale opzione, non va sottovalutata la marcata accezione imperialista politicamente legata all’espressione cinese haiwai junshi jidi 海外军事基地 (base militare d’oltremare). Inoltre, un simile mutamento di postura, in contrasto con il modello cinese di “sviluppo pacifico”, implicherebbe inevitabilmente una reazione non solo da parte degli avversari, ma anche da parte dei partner regionali. Infine, un’opzione più aggressiva ma al contempo più surrettizia della precedente, consisterebbe nel dispiegamento occulto di missili terra-aria, anti-nave e munizioni, in modo da trasformare, in caso di conflitto, i porti in nodi operativi anti-access/area denial (A2/AD) a ridosso di chokepoint vitali per il commercio globale.
Alla luce delle considerazioni relative al grado di controllo che il governo di Pechino è in grado di esercitare sulle attività di SOE e attori privati, nonché dell’architettura strategica della fusione militare-civile e delle indicazioni tattiche già implementate in tale contesto, finalizzate a favorire l’impiego e la conversione di asset cinesi in ottica dual-use, non può essere trascurato il rischio geopolitico insito nella strategia di investimento portuale cinese, intesa come strumento surrettizio di deterrenza nei confronti di eventuali alleanze contenitive a guida americana.
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