(Articolo pubblicato su L’Economista, inserto de Il Riformista)
In un’epoca in cui la trasparenza è moneta corrente e ogni decisione di un manager può diventare pubblica in tempo reale, la reputazione non è più un elemento “soft”, ma un asset misurabile, strategico, decisivo. «La reputazione è ormai centrale. Non è un’impressione, è un indicatore concreto di affidabilità, leadership, visione. La valutiamo attraverso referenze strutturate, presenza mediatica, coerenza tra dichiarazioni pubbliche e comportamenti. È un asset, e come tale va gestito» spiega Niccolò Calabresi, Partner in charge per l’Italia e Regional Practice Managing Partner Healthcare & Life Sciences per Europa e Africa in Heidrick & Struggles, una delle principali società globali di leadership advisory ed executive search.
Secondo Calabresi, la reputazione nei processi di selezione non è una variabile tra le altre, ma una lente che rilegge tutto il profilo: «Un track record tecnico solido è necessario, ma non sufficiente. La reputazione sintetizza risultati, stile di leadership, impatto sull’organizzazione e sul mercato. In molti casi è l’elemento che influenza le decisioni più importanti».
Il peso della reputazione, però, cambia da settore a settore. Nel finance ad esempio prevale l’aspettativa di rigore, nel tech di autenticità e vision, nella manifattura la stabilità. Le public company sono molto sensibili alla reputazione pubblica; le private a quella relazionale e fiduciaria. Ma la trasparenza è trasversale.
Ma si può davvero dare un valore economico alla reputazione di un executive? «Sì. Una reputazione consolidata accelera la fiducia del mercato, degli stakeholder, dei talenti. Il suo impatto può riflettersi su stock price, investimenti, employer branding. In questo senso, la reputazione ha un effetto moltiplicatore sul valore percepito di un’organizzazione».
Nel lavoro di executive search, capita anche di stimarne indirettamente il “costo”. «Non solo in termini retributivi, ma di attrattività complessiva del progetto: cultura aziendale, governance, margine d’azione. Chi ha una forte reputazione negozia su tutto ciò che può tutelare la propria coerenza e immagine».
Attenzione anche al cosiddetto “rischio reputazionale”: «quando proponiamo un candidato, valutiamo eventuali criticità, zone grigie, passati contenziosi. Ma soprattutto osserviamo come sono stati gestiti. La gestione del passato è spesso più rilevante del fatto in sé».
E quando la reputazione è stata danneggiata? È possibile ricostruirla? Sì, spiega Calabresi «ma serve tempo, coerenza, umiltà. Un manager può riconquistare fiducia se accetta ruoli sfidanti, cambia comportamento in modo tangibile e dimostra evoluzione. Le scorciatoie non funzionano». Oggi però la reputazione si gioca su un terreno più instabile, con i social media e la velocità della comunicazione, ogni dettaglio può amplificarsi. Ma è anche un’opportunità, soprattutto se si è autentici e trasparenti.
Quale consiglio darebbe, dunque, a un manager ambizioso? «Investire sulla coerenza. Tra ciò che si fa, ciò che si dice e ciò che si è. Curare le relazioni, saper ascoltare, comunicare con autenticità. La reputazione non si costruisce con i comunicati stampa, ma con il tempo e l’esempio».
«La prima cosa che guardo di un candidato – ammette Calabresi – è come parlano di lui le persone che ci hanno lavorato. Le relazioni non solo sono lo specchio più fedele della reputazione, ma la moneta invisibile che apre porte che neppure il capitale sa forzare».
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