“Criptovalute il più grande rischio, quando ci sarà la crisi il 2008 sembrerà un momento felice”


Fusioni e aggregazioni nell’ottica di far crescere le banche e un punto interrogativo sul ruolo del credito in un mondo che vive un periodo di rapide evoluzioni. Lo stato dell’arte in Italia vede Unicredit lanciare un ops su Commerzbank, scontrandosi con l’opposizione del management della banca, dei sindacati e del Governo tedesco. La stessa Unicredit muove su Banco Bpm e anche qui l’ops è ostile e il governo italiano usa il golden power, che una recente sentenza del Tar del Lazio obbliga a rivedere nelle condizioni che pone.

Nel mentre, Crédit Agricole chiede l’ok della BCE per salire oltre il 20% in Bpm e complicare la strada alla banca di Orcel. Dal canto suo Banco Bpm, forte del controllo di Anima, punta alla risanata Monte dei Paschi, che a sua volta lancia un ops su Mediobanca che muoveva intanto su Banca Generali. Di qui, la suggestione del terzo polo bancario. Poi c’è Bper, la popolare emiliana che vuole la Popolare di Sondrio (con cui condivide l’azionista principale, Unipol) operazione inizialmente considerata ostile, ma andata in porto con l’adesione degli azionisti, che ha superato il 50%. I processi di aggregazione servono? E con quali obiettivi? Che attendersi oggi dalle banche in Europa?

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Lo abbiamo chiesto a Rudi Bogni, finanziere di lunga data tra la Svizzera e Londra.

Forte la spinta verso le aggregazioni, pur tra mille difficoltà. Che dire a riguardo?
«La crescita organica delle banche è ritenuta troppo costosa o troppo lenta rispetto agli obiettivi dei manager bancari. Quando il costo del capitale è basso la tentazione di crescere per acquisizione aumenta a prescindere da ogni altra considerazione».

La politica si fa troppo gli affari del credito?
«La politica è sempre stata interessata ad avere un’influenza sulle aziende di credito. È naturale. Basti ricordare l’influenza politica sulle fondazioni bancarie nel passato. Se non tenuta sotto controllo, questo può portare a distorsioni della funzione creditizia, locali quando lo sono le banche, nazionali per le banche più grandi. Anche il processo inverso, più raro, può essere pericoloso».

Si discute dell’obiettivo di far crescere le imprese europee per competere su scala globale. È desiderabile avere banche più grandi o aumentano i rischi sistemici?
«L’oligopolio è quasi sempre portatore di rischio sistemico, forse più del monopolio. Il monopolista sa che non deve distruggere il proprio business, l’oligopolista può invece pensare che saranno gli altri a occuparsi delle responsabilità sistemiche. L’oligopolio bancario nella Gran Bretagna del 2008 contribuì alla crisi che forzò il governo laburista a prendere il controllo di alcune delle grandi banche. Penso alla politica del lasciar fare che permise alla Royal Bank of Scotland di fare acquisizioni al di là del buon senso senza tener conto dei rischi sistemici».

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Le più grandi banche del continente sono fuori dall’Eurozona e dall’Unione: HSBC a Londra e UBS a Zurigo. Banche troppo piccole in Ue rischiano di limitare progetti imprenditoriali ambiziosi, come quelli su AI, difesa, aerospazio?
«Tali progetti dipendono solo in minima parte dalle banche. I mercati dei capitali globali sono molto più ampi. Negli Stati Uniti grandi e innovativi investimenti nella difesa sono finanziati dal private equity. Non siamo più negli anni ‘80, quando solo le banche erano in grado di gestire i petrodollari nell’economia mondiale e anche allora lo fecero male, finanziando folli progetti nell’America Latina e dovendo poi ricapitalizzarsi in tutta fretta».

Nel suo Rapporto Draghi individua un’inerenza tra la carenza di venture capital in Europa (appena il 5% a livello globale) e la frammentazione dei mercati europei.
«L’Europa ha un’attitudine al rischio molto diversa dagli Stati Uniti e dall’Asia. Bisognerebbe capire se il problema con il venture capital è un problema di offerta da parte degli investitori o un problema di domanda da parte degli imprenditori. Ricordo a inizi Duemila alcuni scienziati italiani domandare l’8% del capitale per uno spin-off universitario, mentre in America si chiedeva fino all’80%. Dopo il secondo aumento di capitale, persero interesse e tornarono al più sicuro mondo accademico. Un problema culturale prima che finanziario».

Ad oggi però le famiglie europee risparmiano di più di quelle americane, ma il risparmio finisce per finanziare l’economia americana.
«Il capitale va dove ci sono progetti per investirlo. Le banche non possono inventarli. Gli Stati Uniti sono ancora un magnete per gli investimenti per motivi sia economici che culturali e, fino a tempi recenti, anche politici».

Quali i rischi per il mondo del credito, guardando ai prossimi decenni?
«Da vecchio cinico, temo che il più grande rischio sistemico siano le criptovalute. Ormai il sistema bancario è permeabile. I governi, tranne quello cinese, hanno abdicato a quello che nell’era digitale dovrebbe essere considerato un obbligo morale: fornire ai cittadini moneta digitale. Quando (e non se) ci sarà una crisi di fiducia per una o più criptovalute, il sistema bancario non ne sarà indenne. A quel punto, il 2008 potrebbe sembrarci un momento felice».

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