Decreto Flussi: tra aperture necessarie e contraddizioni politiche


Roma, 1 luglio 2025 – Il nuovo decreto Flussi, approvato dal governo Meloni, segna un’importante svolta nella gestione degli ingressi legali in Italia. Con l’obiettivo di rispondere alle esigenze crescenti del mercato del lavoro, l’esecutivo ha fissato la quota di ingressi di lavoratori stranieri non comunitari a circa 500.000 unità per il triennio 2026-2028, superando i numeri delle precedenti programmazioni.

Una scelta che, se da un lato rappresenta una presa d’atto concreta delle necessità produttive del Paese, dall’altro mette in evidenza le tensioni interne alla maggioranza di governo. Accogliere manodopera straniera si rivela infatti una mossa obbligata per soddisfare le richieste del mondo produttivo, in particolare di piccole e medie imprese, soprattutto nei settori dell’agricoltura, del lavoro stagionale e del lavoro domestico, dove la domanda resta elevata e difficilmente colmabile con forza lavoro nazionale.

Il provvedimento evidenzia però una dissonanza tra parole e fatti: mentre si moltiplicano dichiarazioni pubbliche orientate a una chiusura verso nuovi ingressi, la realtà dimostra che il sistema produttivo italiano non può fare a meno del contributo dei migranti. I dati sono chiari: molti italiani lasciano il Paese in cerca di salari più alti e condizioni migliori, mentre settori interi restano scoperti.

Accanto a questa apertura, emergono però i limiti strutturali del sistema: la carenza di personale nelle questure, le lungaggini burocratiche, le attese interminabili per il rilascio dei permessi di soggiorno e l’esame delle domande di protezione internazionale. E se l’obiettivo è rafforzare i controlli per evitare abusi e truffe, resta da capire con quali risorse e strumenti.

Un altro punto critico è l’efficacia della misura nel lungo periodo. Il rischio è quello di una gestione emergenziale dell’immigrazione, usata come strumento elettorale: si promette sicurezza, si alimentano paure, ma poi si aprono le porte per necessità economiche. Il tutto senza affrontare davvero i nodi cruciali dell’integrazione e della riforma legislativa.

La legge Bossi-Fini, ancora in vigore, risale al 2001 ed è ormai largamente inadeguata rispetto alla realtà sociale ed economica attuale. Una sua revisione strutturata, che coinvolga sindacati, associazioni di categoria e il terzo settore, potrebbe favorire ingressi regolari, contrastare il lavoro nero e ridurre il potere dei trafficanti di esseri umani.

Il modello attuale, fatto di contraddizioni politiche, interventi parziali e navigazione a vista, non è più sostenibile. L’Italia ha bisogno di una visione lucida e duratura che riconosca la centralità dell’immigrazione regolare come risorsa per la crescita, la coesione e il futuro del Paese.

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