Lo smart working è stata una conquista del mondo del lavoro e la pandemia da Covid-19 ha permesso di accelerare l’introduzione e lo sviluppo di questo mezzo. Ad oggi costituisce di fatto una nuova normalità per milioni di lavoratori nel mondo.
Questa metodologia ibrida di svolgimento dell’attività lavorativa è costituita da una parte di lavoro in presenza, e una parte di lavoro a casa o comunque in luoghi non messi a disposizione dal datore di lavoro.
Lo studio dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico
Sebbene dal 2020 ad oggi il personale assunto che svolge tale tipologia di lavoro è diminuita, complice il progressivo rientro in sede, tale pratica non muore. Anzi, in Italia, secondo uno studio dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, le grandi aziende hanno adottato lo smart working in misura tale da essere tornate, di fatto, ai livelli registrati cinque anni fa.
A tirarsi indietro, invece, ci sono le PMI (piccole e medie imprese) le quali preferiscono avere un rapporto vivo e diretto con i propri dipendenti.
Se è vero che tale tendenza accomuna tutti i paesi più sviluppati, alcune categorie di lavoratori risultano essere più propensi all’utilizzo di tale strumento,mentre altre risultano esserne escluse.
Smart working, non per tutti
Secondo uno studio dell’Office for National Statistics (ONS) nel Regno Unito – diffuso dal The Guardian – emerge che i Millennials e la Generazione Z sono tra i lavoratori più favorevoli allo smart working; tuttavia, nella fascia tra i 16 e i 24 anni, sono anche coloro che più facilmente accettano lavori in presenza e rinunciano al lavoro ibrido, spesso perché impiegati in settori che non ne consentono l’applicazione.
Per contro, tra i gruppi di persone più propensi a seguire modelli di lavoro da casa o ibridi ci sono i Manager, i genitori e, in generale, le persone tra i 30 e i 49 anni. Cciò accade perché, da una parte, in questa fascia è più comune trovare lavoratori-genitori, i quali utilizzano questo metodo di conciliazione vita-lavoro per accudire i figli, oppure persone con cariche manageriali. In Italia si stima che circa il 50% di coloro che ricoprono tale ruolo siano ricompresi in questa categoria.
Non solo. L’istituto statistico inglese ha riscontrato come le persone con una laurea o un livello di istruzione equivalente rispetto a coloro che non hanno qualifiche hanno una probabilità 10 volte superiore di usufruire del lavoro ibrido rispetto a chi non ha tali qualifiche.
Inoltre i lavoratori adoperati in settori in cui la manualità e il contatto diretto con il cliente sono elementi imprescindibili, come il commercio al dettaglio, l’edilizia e l’ospitalità. si sentono anche meno in grado di svolgere – anche solo in parte – la loro attività da remoto.
Crescita professionale e lavoro da remoto: un equilibrio da trovare
Se è vero che il lavoro intelligente rappresenta la conquista lavorativa degli anni venti del XXI° secolo, è altrettanto vero che alcune categorie di dipendenti, soprattutto quelli più giovani, non dovrebbero porre lo smart working come il punto focale della propria vita professionale. Esistono, infatti, benefici che da remoto non possono essere erogati e che concorrono alla crescita personale e professionale delle nuove leve, come la socializzazione professionale ed extra-professionale. Quest’ultime permettono ai dipendenti di creare un gruppo affiatato e coeso, contribuendo così a migliorare la qualità del loro lavoro.
Da non sottovalutare c’è anche l’opportunità di imparare osservando gli altri all’opera e di trovare un mentore che trasmetti sapere ed esperienza.
Fonti:
Marco Carra
La Rocca e Associati S.p.A.
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