Il recente intervento di Giorgia Meloni all’Assemblea di Confindustria ha riacceso il dibattito sui sostegni alle imprese italiane, tra promesse di nuovi aiuti e la realtà di una coperta finanziaria sempre più corta.
La premier ha ribadito la determinazione del governo a sostenere il tessuto produttivo nazionale, annunciando piani per rimodulare fondi del Pnrr, misure anti-dazi e nuove strategie per abbattere il costo dell’energia.
Tuttavia, dietro gli annunci si nasconde una realtà fatta di risorse limitate, difficoltà di spesa e vincoli europei che rendono incerta la reale disponibilità dei fondi necessari per trasformare le promesse fatte in interventi concreti.
Gli annunci di Giorgia Meloni tra promesse e realtà
Nel suo discorso a Bologna, Meloni ha sottolineato come il suo governo abbia già stanziato circa 60 miliardi di euro per fronteggiare il caro energia, equivalenti a due leggi finanziarie. Tuttavia, la stessa premier ha ammesso che “continuare a tamponare spendendo soldi pubblici non può essere la soluzione”, suggerendo che la stagione dei grandi aiuti diretti sia ormai agli sgoccioli. Le nuove strategie proposte puntano su strumenti come i contratti pluriennali a prezzo fisso per l’energia da fonti rinnovabili e una revisione del mercato elettrico, ma senza nuovi stanziamenti significativi.
Sul fronte dei dazi e delle tensioni commerciali internazionali, Meloni ha rilanciato l’idea di un “piano anti-dazi” da 25 miliardi di euro per compensare le imprese italiane colpite da eventuali tariffe statunitensi. Anche qui, però, la copertura finanziaria è tutta da verificare: il piano prevede di attingere a fondi europei già esistenti, come il Pnrr, i fondi per la coesione territoriale e quelli per la transizione climatica.
Ma la capacità effettiva di spendere queste risorse resta un nodo irrisolto, come dimostrano i ritardi cronici nell’attuazione dei progetti e la difficoltà di assorbimento dei fondi europei da parte dell’Italia.
La questione dei fondi: il nodo del Pnrr e i vincoli europei
Il Piano nazionale di ripresa e resilienza rappresenta la principale fonte di finanziamento per le politiche industriali e di sostegno alle imprese. Tuttavia, a quasi quattro anni dal suo varo, solo il 33% dei 194 miliardi di euro complessivi risulta effettivamente investito nel Paese.
La Commissione Europea ha recentemente respinto la richiesta italiana di prorogare la scadenza del Pnrr oltre agosto 2026, aumentando la pressione sul governo affinché acceleri la spesa e la realizzazione dei progetti. La Corte dei Conti ha inoltre avvertito del rischio concreto di sprecare le risorse disponibili, a causa della lentezza burocratica e della mancanza di una visione strategica condivisa.
L’idea di “rimodulare” 15 miliardi di euro del Pnrr per indirizzarli verso misure a favore di occupazione e produttività, come annunciato da Meloni, si scontra con la rigidità dei vincoli europei e con la necessità di rispettare le finalità originarie dei fondi.
Inoltre, la possibilità di utilizzare risorse destinate alla coesione territoriale o alla transizione climatica per compensare le imprese è tutt’altro che scontata e richiede il via libera di Bruxelles, che finora ha mostrato poca flessibilità su questo fronte.
Le reazioni delle imprese e delle opposizioni: “servono risorse certe”
Le promesse del governo sono state accolte con scetticismo sia dal mondo imprenditoriale che dalle opposizioni politiche. Confindustria ha chiesto un piano industriale straordinario da almeno 8 miliardi l’anno per rilanciare investimenti, salari e produttività, ma la risposta della premier si è limitata a generiche rassicurazioni e all’impegno di occuparsi di “semplificazioni burocratiche”. Il presidente di Confindustria, Emanuele Orsini, insieme alle principali associazioni di categoria, ha ribadito la necessità di interventi strutturali e risorse certe, sottolineando come la crisi energetica e la pressione fiscale stiano mettendo a dura prova la competitività delle imprese italiane.
Le opposizioni, per voce di Giuseppe Conte e altri esponenti, hanno accusato Meloni di “vendere chiacchiere” e di non avere una vera strategia per colmare il divario tra annunci e realtà.
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