Dazi, escalation o intesa? Che cosa succede ora


di
Giuliana Ferraino

La posta in gioco tra Europa e Stati Uniti è altissima: vale un interscambio di oltre 851 miliardi di euro. Dagli investimenti delle imprese ai prezzi al consumo. Il ruolo delle altre «barriere» su regole e certificazioni

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E ora che cosa succederà, dopo che Donald Trump ha riacceso la guerra commerciale con l’Europa, minacciando dazi al 50% su tutto l’import proveniente dall’Ue dal 1° giugno, con un post pubblicato venerdì sul suo social Truth? La posta in gioco è altissima: vale più di 851 miliardi di euro, pari all’interscambio tra Stati Uniti ed Europa nel 2024. L’Ue esporta beni per 531,6 miliardi negli Usa e ne importa per 333,4, con un surplus di 198,2 miliardi. Ma nei servizi è in deficit per 108 miliardi. Il saldo totale, però, rimane positivo per circa 90 miliardi. «Trump alza sempre la posta, poi ritratta, poi rilancia più forte. È un mercanteggiatore aggressivo che usa la minaccia come leva negoziale. Non è diplomazia, ma intimidazione», spiega al Corriere Dante Roscini, docente di economia internazionale alla Harvard Business School ed ex banchiere d’affari (Goldman Sachs, Merrill Lynch e Morgan Stanley). «Nei mercati è passata l’idea che Trump, alla fine, ceda sempre, ma intanto crea il caos».

Il ruolo dei mercati

Il 2 aprile, ribattezzato «Liberation Day», Trump, con tanto di tabellone, aveva annunciato dazi reciproci del 20% contro l’Europa (ma del 25% su automobili, acciaio e alluminio), salvo fare marcia indietro una settimana dopo, per fermare le turbolenze sui mercati, e dimezzare il livello al 10% per 90 giorni per trovare un accordo. Fino all’ultima giravolta, causata dall’irritazione per la lentezza dei negoziatori europei.




















































 
«Le trattative sul commercio sono molto complesse, invece qui c’è una semplificazione grossolana», sostiene Roscini. Ma c’è anche incompetenza. Il tabellone con cui Trump si è presentato per indicare i calcoli dei dazi reciproci il 2 aprile, erano tutti sbagliati e disattendevano i principi dell’economia di base come, ad esempio, l’affermazione (errata) che ogni Paese debba avere un equilibrio commerciale con ciascun altro. O la pretesa di rilanciare la manifattura Usa con le tariffe: Apple non troverà mai la manodopera per produrre in modo competitivo gli iphone negli Stati Uniti, a dispetto della minaccia di dazi del 25% sugli smartphone assemblati all’estero. «Sembrano un gruppo di dilettanti e il presidente si comporta come un bullo», valuta Roscini. 

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Il problema è che l’America è un’economia da oltre 30 mila miliardi di dollari e per l’Europa è il principale mercato di sbocco. Quindi le sue minacce, reali o solo bluff negoziale, hanno un impatto fortissimo su tutto: mercati e aziende. «Si tratta di un esperimento macroeconomico senza precedenti», avverte Roscini. «Le aziende non possono pianificare con questa incertezza: dazi al 10, al 20 o al 30% cambiano completamente i loro modelli di business. L’unica certezza è l’incertezza. Ma l’incertezza scoraggia investimenti, destabilizza le supply chain. Le catene del valore sono così integrate tra Usa e Ue che in questa guerra commerciale perdono tutti».

Quello che spaventa di più è che anche se i dazi si attesteranno al 10%, come per il Regno Unito, unico Paese finora ad aver firmato un’intesa commerciale con gli Sati Uniti, significherà tornare ai livelli del 1945. E questo implicherà «minor crescita sulle due sponde dell’Atlantico».

Anche la Federal Reserve è in trappola. I dazi potrebbero far ripartire l’inflazione americana, al 2,4% in aprile. Le aspettative di inflazione sono in crescita: i dazi creano pressione sui prezzi dei prodotti importati, ma anche l’indebolimento del dollaro contribuisce. Però ci sono anche forze disinflazionistiche, come il calo delle quotazioni del petrolio, causato dalle dinamiche internazionali. Perciò è difficile prevedere quale sarà l’impatto finale.

La Fed e i tassi di interesse

Gli analisti per quest’anno si aspettavano due tagli dei tassi d’interesse, attualmente al 4,5% rispetto al 2,4% della zona euro. Ma secondo il presidente della Fed di Chicago, Austan Goolsbee, le parole di Trump hanno aumentato l’incertezza e reso meno probabile un taglio dei tassi, atteso già nella riunione di giugno. «Tutto è sempre sul tavolo. Ma ho l’impressione che, per quanto mi riguarda, l’asticella per agire sia un po’ più alta», ha dichiarato venerdì in un’intervista a Cnbc. Mentre il presidente della Fed di Atlanta, Raphael Bostic, ora crede che sia «probabile un solo taglio dei tassi quest’anno», non due come previsto, per via della guerra commerciale.

In questo contesto in Europa molte voci si sono già alzate per cercare di abbassare i toni e trovare una soluzione equa, anche venendo incontro alle richieste americane, soprattutto dal mondo delle imprese. Tra queste, quella del patrone di Lvmh, Bernard Arnault, o quelle dei produttori di auto, che hanno negli Stati Uniti il più grande mercato. Per Roscini, però, «l’Europa non può fare altro che resistere, perché non può inginocchiarsi davanti a Trump, rinnegando i suoi principi», come i requisiti sulla sicurezza alimentare e o dispositivi medici, dice credendo che un bullo vada trattato da bullo.

«Trump mette tutto nello stesso calderone: Iva, standard, certificazioni, procedure regolamentari, tassazione sulle società tecnologiche. Cerca una sorta di cambiamento all’ingrosso». Invece non funziona così. «Bruxelles non ha scelta: deve rispondere con durezza, ma sulla base dei principi», insiste. Certo, Trump potrebbe tornare sui suoi passi. La scommessa (o la speranza) è che sul commercio estero pesino gli interessi e le pressioni dell’industria, della finanza e dei mercati americani. È già successo. Domani Wall Street è chiusa per il Memorial day. Martedì si vedrà come reagiranno i mercati.

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