Più dazi per tutti? Da usare solo per ridurre disuguaglianze e inquinamento


Se è il dazio la partita su cui si gioca il futuro, allora si potrebbe pensare a un sistema concordato di tariffe correttive per promuovere un mondo più equo e tentare di frenare sul serio il riscaldamento globale. Non dazi usati come clave da esibire nel corso di sgangherate esibizioni in mondovisione

Bontà sua, il presidente americano Donald Trump l’8 aprile ha sospeso per 90 giorni l’applicazione dei super-dazi, decisi solo pochi giorni prima, sulle importazioni dai paesi europei (tra gli altri), mentre quelli del 10 per cento su tutte le importazioni e da tutti i paesi sono già in vigore. C’è dunque tempo per mettere a punto una strategia di risposta di ampio respiro. Ma non è tempo da sprecare alla ricerca di piccole ripicche su questa o quella merce o in umilianti e sterili trattative che, quasi certamente, condurrebbero a una qualche capitolazione europea e al rigonfiamento dell’ego (già ipertrofico) di quella persona-disgrazia che gli elettori americani hanno deciso di infliggere a se stessi e al mondo il 4 novembre 2024.

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L’attentato all’ordine mondiale

La questione cui rispondere non è, infatti, solo commerciale. Tra l’altro è molto probabile che i dazi si rivelino presto un boomerang per gli Usa (vista l’integrazione mondiale delle catene del valore) e che Trump sia costretto a cancellarli dalla reazione dei mercati e dalla pressione dei suoi stessi sostenitori. Trump, in effetti, ha in questi pochi mesi attentato all’ordine socio-economico mondiale (trascuro per incompetenza quello politico-militare): nel giorno del suo insediamento Trump ha ritirato gli Usa dalla World Health Organization (WHO, di cui erano i maggiori finanziatori), mettendo a rischio la cooperazione mondiale in tema di prevenzione delle pandemie; il giorno dopo Trump ha annunciato il ritiro degli Usa dagli accordi di Parigi sul cambiamento climatico, dando il segnale che il maggior paese inquinatore (pro capite) del mondo ha intenzione di seguire solo le sue convenienze (di breve periodo) e di contribuire senza freni al riscaldamento globale; l’ineffabile presidente americano ha anche abbandonato l’accordo del 2021 (tra oltre 140 paesi e già ratificato da 40) sulla tassazione minima del 15 per cento sui profitti delle multinazionali, indipendentemente dal paese in cui vengono realizzati. 

Inoltre, sarebbe un errore con notevoli conseguenze limitarsi a temporeggiare in attesa che passi la nottata dei quattro anni presidenziali. La prima ragione è che le trame di Trump per un terzo mandato potrebbero anche andare a buon fine (per lui). La seconda è che il trumpismo non è un virus venuto da chissà dove e che com’è venuto se ne andrà: è il sintomo di una malattia grave che ha colpito ampie porzioni del mondo delle democrazie liberali. La terza è che è illusorio credere che il ruolo dell’America nel mondo e con l’Europa torni quello prima di Trump; il cambiamento è cominciato ben prima della sua incoronazione.

L’alternativa europea

Due studiosi prestigiosi come Olivier Blanchard e Jean Pisani-Ferry (ma su linee analoghe si è espresso anche Thomas Piketty) lo scorso marzo su Project Syndacate hanno sollecitato l’Europa a iniziare a riconfigurare “un mondo post-americano”, possibilmente migliore di quello che ha causato gli enormi problemi in cui siamo precipitati. Come primo passo l’Europa dovrebbe farsi promotrice di una vera “coalizione dei volenterosi” per costruire sul commercio internazionale e sulle altre questioni globali divelte da Trump accordi con il maggior numero possibile di paesi, a cominciare da quelli del Sud globale, compresa l’America latina, la Cina, l’India e il Sud-est asiatico. Si dice: ci vogliono anni. Infatti, bisogna cominciare subito. Lo sdoganamento dei dazi, stante il mutismo delle istituzioni che dovevano vigilare sul commercio mondiale, è un’opportunità da cogliere per utilizzarli per una buona causa che i buoni princìpi economici (inclusi quelli del WTO) accordano da sempre, cioè per correggere distorsioni di mercato e impedimenti di una equa cooperazione internazionale (veri e non inventati, naturalmente).

In campo climatico, l’accordo potrebbe prevedere dazi sulle merci importate da paesi che non applicano una congrua tassazione delle emissioni di CO2 (carbon tax) e non abbiano implementato programmi di investimento per la conversione green delle proprie industrie. Certo l’Europa dovrebbe superare il complicatissimo e probabilmente inefficace sistema di Carbon border adjustment mechanism (Cabm) da poco messo in piedi (i documenti applicativi prendono qualche centinaio di pagine e gli oneri burocratici ricadono sulle imprese importatrici). Ma in maniera più snella ed efficace si verrebbe così a creare un club di paesi climaticamente responsabili, che tassano quelli che non entrano nel club (e qui il suggerimento è venuto, addirittura nel 2015, dal premio Nobel americano William Nordhaus). Si potrebbe (e, a nostro avviso, dovrebbe) prevedere un trasferimento di almeno parte dei ricavi da questi dazi ai paesi più poveri del club, che non hanno le risorse per finanziare la transizione verde e ai quali le somme previste nel tempo dalle varie Cop non sono pervenute, pur essendo comunque insufficienti.

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Non diversamente dal caso della CO2 si dovrebbe pensare a dazi posti da tutti i paesi del club nei confronti delle importazioni da paesi che si rifiutano di applicare la minimum tax sui profitti delle multinazionali. Dopo tutto, i dazi su chi non paga per l’inquinamento che produce o non tassa secondo regola i profitti sono un correttivo dei vantaggi di costo di cui godono nel commercio internazionale i gratuiti inquinatori, i surfisti di sistemi fiscali condizionati dal dumping di alcuni. E sono perciò correttivi santificati dalla teoria economica seria (non quella risibile di Stephen Miran, il guru di Trump per il commercio internazionale). Gli esempi potrebbero continuare.

Dazi contro chi evade, inquina e sfrutta

In sostanza noi pensiamo non a dazi usati come clave da esibire (o nascondere) nel corso di ripetute, sgangherate esibizioni in mondovisione, ma strumenti per creare e proteggere un club in cui si entra gratis per riceverne i benefici della cooperazione, mentre si paga per restarne fuori. All’interno del club il commercio sarebbe libero, con dazi pari a zero, fatta salva la possibilità per i paesi più poveri di imporne (in dimensione e tempo limitati) per proteggere le loro “industrie nascenti” e correggere le persistenti storture della globalizzazione fatta a immagine dei paesi ricchi. Nel complesso, si avrebbe un sistema concordato di dazi a protezione di accordi cooperativi volti a promuovere un mondo che tenta sul serio di frenare il riscaldamento globale nonché di diventare più equo ponendo un limite alla gigantesca manna fiscale concessa ai grandi monopolisti del capitale immateriale. E chissà che nel club non nasca anche una nuova valuta internazionale capace di sostituire il dollaro.

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