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Studi professionali nel mirino dei private equity


Se fino a pochi anni fa le aggregazioni nel mondo delle professioni erano autofinanziate e guidate principalmente dai professionisti stessi, con obiettivi di passaggio generazionale. Oggi il settore sta sempre più attirando l’attenzione di investitori finanziari, sebbene con alcune differenze settoriali. Questo fenomeno, già consolidato in altri ambiti come quello odontoiatrico con le catene dentali, sta ora prendendo piede anche tra i commercialisti, trainato da tre fattori principali: la necessità di capitali per finanziare la crescita, l’inevitabile consolidamento del mercato e il ruolo sempre più rilevante della tecnologia e della digitalizzazione.

L’attenzione degli investitori per gli studi professionali non è dunque uniforme:

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  • dentisti: il settore odontoiatrico è stato il primo ad essere interessato dal mondo della finanza, con l’affermazione delle catene dentali già circa 15 anni fa. Da allora, la standardizzazione dei processi, l’utilizzo di marchi riconoscibili e il ruolo crescente dei manager hanno trasformato il settore. Oggi il Private Equity continua a finanziare le acquisizioni ma i principali attori rimangono sostanzialmente gli stessi;
  • avvocati: al contrario, il settore legale rimane ancora poco permeabile agli investitori esterni. Le Società tra Avvocati (STA) rappresentano un primo tentativo di favorire l’aggregazione, ma la scarsa cultura aggregativa del settore e i vincoli normativi hanno finora limitato l’ingresso di capitali finanziari,
  • commercialisti e consulenti del lavoro: è il settore più dinamico in questo momento e su questo occorre concentrarsi.

Gli studi di commercialisti offrono servizi essenziali e continuativi, come la gestione della contabilità, le dichiarazioni fiscali e l’elaborazione delle buste paga (in realtà sarebbe di competenza dei cdl). Questi servizi garantiscono entrate costanti e ripetitive, molto attraenti per gli investitori finanziari. Inoltre, l’adozione crescente di strumenti tecnologici – software gestionali avanzati, intelligenza artificiale e automazione dei processi contabili – rende il settore più scalabile e adatto a strategie di crescita industrializzata. Infine, ma forse il fattore più importante, il mercato italiano è ancora dominato da una miriade di piccoli studi, con fatturati limitati e poca capacità di investimento. Il Private Equity vede in questo scenario un grande potenziale di aggregazione, con la possibilità di creare operatori di riferimento su scala nazionale attraverso una molteplicità di acquisizioni successive.

Queste condizioni, da sole, non sono state tuttavia sufficienti a riscuotere un interesse concreto da parte del mondo della finanza per diversi anni. Allo stesso tempo, anche i professionisti non erano interessati a ricercare capitali all’esterno.

Secondo la nostra esperienza, è stato il Covid a segnare la svolta.

Come conseguenza della crisi sanitaria, ci si attendeva una risposta più forte da parte degli studi mono professionali, i più colpiti. Ma così non è stato, sono stati invece gli studi di più grandi dimensioni ad essere più reattivi ed a voler sperimentare nuove strategie di crescita.

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Dopo la pandemia, il volume delle operazioni di aggregazione tra studi è aumentato significativamente…

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